Nibali, il sole che mancava
Ne abbiamo viste, dette e lette di tutti i colori, ma una cosa possiamo scriverla senza aver il timore di sbagliare: Vincenzo Nibali, 29 anni, da Messina ha vinto la 101° edizione del Tour de France. Vince-Enzo che vince il Tour. Suonano bene il ritornello le campane a festa di un’Italia basita perché incredula nel vedere un suo figlio in maglia gialla sui Campi Elisi. Dopo Marco Pantani (1998), dopo Felice Gimondi (1965), dopo Gastone Nencini (1960), dopo Fausto Coppi (1949 e 1952), dopo Gino Bartali (1938 e 1948), dopo Ottavio Bottecchia (1924 e 1925) ora c’è lui: Vincenzo Nibali. Suo il 2014, sue quattro vittorie di tappa. 19 giorni in maglia gialla e un primato che proietta Vincenzo nell’Olimpo del ciclismo lì dove si trovano i miti. Gente del calibro di Anquetil: «Chi nasce puledro rimane puledro per tutta la vita», Hinault: «Correre per arrivare secondo è triste per il ciclismo», Merckx: «Quando la strada sale non ti puoi nascondere», Gimondi: «Vinsi poi venni a sapere che quel belga era Eddy Merckx» e Contador: «Ho una filosofia nella vita: quello che deve accadere, accade sempre». Gli unici, nella storia del ciclismo, ad aver vinto tutte e tre le grandi corse a tappe: Giro d’Italia, Tour de France e Vuelta a España.
Dalla campagna inglese, ai Vosgi. Dalle Alpi ai Pirenei, da Calais alla Guascogna, Nibali, diciamolo pure, ha dominato la corsa senza ammazzarla. Ha lasciato fare quando poteva, ha staccato tutti quando voleva. Noi più o meno esperti o neofiti abbiamo ammirato un atleta nel suo massimo stato di forma: «Fisicamente e mentalmente rilassato, con atteggiamento positivo, concentrato nel momento presente». Non siamo sprofondati nelle sabbie mobili della noia. Una noia che con le uscite di scena anticipate dei diretti rivali Chris Froome ed Alberto Contador, causa ossa rotte, rischiava di ridurre tutto alla media. Invece no. Con Nibali il ciclismo è tornato a far parlare di sé nei sommari dei telegiornali, sulle prime pagine dei quotidiani troppo spesso feudatarie devote di un dio pagano chiamato pallone. Con Nibali vince l’Italia nell’estate della grande delusione mondiale (o della mondiale delusione, fate voi) per la nostra Nazionale. Saliamo tutti sul carro del vincitore? Siamo abili a tessere lodi e a demolire le persone con la stessa velocità? Forse si, ma ci piace sapere che è ancora una volta la bicicletta a risollevare le sorti malconce di uno sport italiano che fa fatica a voltare pagina. Con Nibali vince la speranza e l’abbondanza di un successo straripante che molti si augurano essere la piena di un fiume che invade e allaga il territorio portando un nuovo ciclo di fertilità. Esultiamo, ma non dimentichiamo che anche Vincenzo è un italiano all’estero, due gambe in fuga prestate ai capitali del Kazakistan.
Gli onori delle armi ai francesi di nuovo in coppia sul podio della corsa più amata a trent’anni esatti dalla vittoria di Laurent Fignon e dal secondo posto di Bernard Hinault. Gli eroi nazionali sono loro: Thibaut Pinot, terzo a Parigi, giovane speranza del ciclismo transalpino e Jean-Christophe Peraud, secondo, che giovanissimo non lo è più visti i suoi 37 anni. Peraud qualcosa da dire o meglio da insegnare ce l’ha ancora. Come le congiunzioni avversative d’italica memoria legano due proposizioni in contrasto tra loro, ecco Peraud che ci racconta un ciclismo moderno dal sapore antico quando gli eroi erano spazzacamini, muratori e carrettieri. Oggi certi mestieri non ci sono più o non li vogliamo più fare così troviamo alla destra della maglia gialla un ciclista laureato in ingegneria energetica ed ambientale all’Istituto Nazionale di Scienze Applicate (INSA) di Lione. Storie d’altri tempi possibili solo quando hai un bel posto di lavoro all’Areva, colosso francese dell’energia nucleare e passi professionista a 33 anni cioè quando gli altri iniziano a pensare a cosa fare del proprio futuro. Jean-Christophe, che non è una meteora visto l’argento olimpico di Pechino 2008 nellla mountain bike, aveva un conto in sospeso con il Tour. Lo scorso anno lottava per un buon piazzamento nei primi dieci. La mattina della 17° tappa, la cronometro individuale da Embrum a Chorges, si ritrova nono in classifica generale. Durante la ricognizione del percorso una caduta. Diagnosi: clavicola fratturata, ma Peraud, “le vieux qui grimpe” (il vecchio scalatore) come lo chiamano i francesi, non abbandona e si schiera ai nastri di partenza. Viaggia su una lastra di ghiaccio lunga 30 km sapendo che un’ulteriore caduta può essergli fatale. All’ultima curva, quando mancano due chilometri all’arrivo, la ruota anteriore perde aderenza, la spalla picchia l’asfalto in maniera ignobile con la corsa che finisce all’istante. In lacrime.
Dopo Nibali c’è e ci deve essere per forza il cuore impavido di Peraud Jean-Christophe. Su questo concordiamo con i francesi. Noi intanto ci portiamo a casa la maglia gialla e visto che ci siamo prendiamo a prestito come piccolo pegno a conguaglio delle spoliazioni napoleoniche le parole del poeta Paul Valery: «Il modo migliore per realizzare un sogno è quello di svegliarsi». Sui Campi Elisi l’Italia s’è desta.