Neutro? No grazie
Valentina Gaudiano è docente di Fenomenologia e Antropologia filosofica presso l’Istituto Universitario Sophia (Loppiano).
Oggi si parla tanto di uguali diritti e poco di differenza tra maschile e femminile. È giusto?
È una questione complessa, nata come reazione a un abuso maschilista di secoli. Parallelamente al femminismo estremo, che reagiva all’ingerenza maschile, si affiancava già ai primi del ’900 la riflessione di Edith Stein e poi di Luce Irigaray e altre. Una riflessione sull’identità femminile, che puntava non tanto all’uguaglianza – che porta diritti politici ma anche appiattimento delle identità –, quanto sulla specificità femminile in quanto valore per l’umanità. Il discorso della differenza non è mai mancato del tutto.
Oggi stiamo arrivando al neutro…
Le spinte radicali del femminismo sono arrivate perfino a negare la maternità, cioè il fatto biologico che solo la donna può generare. In questo modo, però, la questione di genere diventa prevalentemente un problema di potere politico e finanziario. Ci sono lobby, non interessate ai problemi reali delle donne, che con la cultura dell’indifferenziato portano avanti un appiattimento sulla “cultura del diritto a tutti i costi”, per cui non c’è più il senso del “comune”.
Perché col neutro non c’è più il senso del comune?
Se posso ottenere e diventare quello che voglio, se c’è l’utero in affitto, se ci sono siti che vendono sperma per diventare madre da sola, nella società si realizza il diritto alla singolarità, il diritto al mio, e si perde il senso del comune. Se ci sono più di 70 generi e ognuno segue l’onda del proprio ego, andando anche contro la propria natura, non c’è più il comune denominatore che è l’essere umano. Il campo è delicato e complesso, ci sono persone lacerate che sperimentano sulla propria carne una “non univocità maschio o femmina”, vivendo una scissione tra fisiologia e psiche. Sono persone che vanno rispettate e accolte, per loro va creato uno spazio di convivenza, dignità, possibilità di esprimersi. Poi però c’è il cambiamento di genere dettato da moda, politica, interesse economico. C’è l’ingerenza dei media che in maniera subdola trasmettono teorie e immagini che inducono strani desideri nelle ragazzine e nei ragazzini, nell’età della formazione.
Lei ha scritto che le donne hanno un modo diverso di fare le cose…
Partendo da alcuni studi e dalla mia esperienza, direi che gli uomini hanno in genere la capacità di guardare un aspetto e andare in profondità, dedicandovi tutta la propria attenzione ed energia, ma perdono il contatto col vivente e ciò che sta intorno. Le donne invece hanno uno sguardo a tutto tondo, cioè pur guardando quel punto non sono capaci di astrarsi dal vivente intorno. Rischiano, però, a volte di rimanere sulla superficie delle cose. Spero che un giorno venga fuori una vera e propria “filosofia del concreto vivente”, perché il pensiero è incarnato. E lo è di tutti: donne e uomini. Le donne se ne rendono conto più degli uomini, forse perché hanno un ritmo biologico che le lega ai ritmi della Terra. Siamo naturalmente portate ad un approccio diverso nei confronti del reale, del relazionarci e anche del pensare.
Questo significa che abbiamo bisogno l’uno dell’altra?
La complementarietà uomo-donna non mi piace come concetto. Il Dio cristiano è un Dio trinitario, non binario; e noi siamo esseri relazionali, per cui io sono tanto più me stessa, quanto più perdo la mia identità nell’altro (chiunque esso sia, maschio, femmina, trans ecc.). C’è una complementarietà in quanto esseri umani. Io sono completa come persona, Dio mi ha creata microcosmo, ma questa completezza non è tale se non si dà. Per cui non posso esistere da sola, altrimenti appassisco e muoio. Se la biologia è fatta di relazioni, ancor più lo sono la dimensione psichica e spirituale che ci caratterizzano come esseri umani. Il mondo dell’altro mi restituisce una visione, una prospettiva che non è la mia, ma che posso fare mia. E in quanto tale mi arricchisce e mi completa.
Lei ha pubblicato il libro “Sul maschile e sul femminile. In dialogo con Klaus Hemmerle” (Città Nuova, 2020). Perché?
Da tempo rifletto sulle ingiustizie dovute alla lettura maschilista della realtà, una lettura non rispondente al messaggio cristiano. Vorrei “rivendicare” il valore della donna e il suo posto nella società, senza “castigare” il maschile.
Esaminando la lettura antropologica del teologo e filosofo Klaus Hemmerle, mi ha colpito la sua triade uomo-donna-mondo: il contributo maschile sta nel «farsi mondo» dell’uomo, cioè nel permettere ad ogni essere umano – non soltanto il maschio – di esprimersi in prodotti e realizzazioni. Il contributo femminile, invece, consiste «nell’umanizzare tale mondo». Il concetto più sorprendente, però, è questo: «Il “luogo” per questi due movimenti è in senso eminente la donna, che accoglie e comprende l’uomo orientato al mondo, è per lui essenza e figura parlante originaria del mondo» . Ci sono due movimenti, e tuttavia il luogo, la relazione, sta nella donna che si fa terzo, in quanto è quell’alter ego che Adamo ha trovato come unico suo pari, unico che risponde al suo parlare.
Nei suoi testi Hemmerle parla delle tante figure femminili della Bibbia, in particolare di Maria. Questo apre domande che mi affascinano e ribalta una certa lettura maschilista, patriarcale, che mette l’uomo all’origine. In tal senso anche la questione del ruolo delle donne e del recupero in pienezza della loro dignità accanto a quella maschile, richiede di mettersi insieme in cammino – donne e uomini – e insieme riscrivere la nostra storia.