Netflix e la crisi della tv
Definire “televisiva” la serialità contemporanea è ormai riduttivo, inattuale, forse sbagliato. Perché Netflix – e con lei ogni piattaforma di distribuzione on line –, non sta mettendo in crisi solo il cinema: la povera, cara e ormai pericolante sala cinematografica. No! La spavalda e tentacolare Netflix – in questi giorni tanto discussa per il film Sulla mia pelle, quello su Stefano Cucchi uscito contemporaneamente nei cinema (pochi) e su Netflix (con grande successo), sta mettendo in crisi anche la cara, vecchia e acciaccatella televisione di una volta.
Troppi i cambiamenti, le parole nuove da imparare. La prima, che forse le racchiude tutte, è post-televisione: quella su un computer o su qualcosa di ancora più piccolo e portatile. Quando vuoi, il frammento che vuoi, tutte le volte che vuoi. Ma anche quella che non passa per i canali ufficiali, che nasce e vive nel web. In ogni caso una tv di contenuti che inoltri con un click, da spettatore “attivo” e promotore, attraverso il mi piace e la condivisione del link, di un determinato prodotto; stroncatore, col semplice silenzio, di un altro.
È capitato, nel 2018, che una serie della Rai, l’interessante La linea verticale di Mattia Torre – sul tema della malattia, meglio ancora del tumore – fosse distribuita prima sulla piattaforma Rai Play e poi sul terzo canale della televisione pubblica. Un esperimento, certo, ma anche un segnale chiaro: che lo streaming, l’on demand, non erano più solo lo spazio del recupero, il surrogato dell’evento, ma il canale principale su cui comunicare un contenuto. Ed ecco che una serie, prima che televisiva o non televisiva, diventa un lungo racconto per immagini, diviso in spezzoni da montare a piacimento, con la possibilità di scegliere la voracità con cui gustarlo.
Netflix, sempre lei, da tempo ha ucciso l’attesa di una nuova puntata, l’arrivederci alla settimana successiva. Tutto in poche ore: il padrone del tempo sei tu, di quelle otto/dieci/sedici ore che partoriscono un altro concetto da imparare: il binge watching, dove binge è l’abbuffata. Di qualcosa che spesso fai fatica a definire solo televisione. Non è un caso che molti festival di cinema – Venezia ormai ogni anno – presentino nel loro cartellone serie che verranno distribuite poco dopo.
Il cinema che promuove la tv? Si, quest’anno è toccato all’attesissima L’amica geniale, che tra l’altro uscirà al cinema – a ottobre – prima di scorrere sui canali della Rai. L’anno prima accadde con Suburra – la serie, poi distribuita da Netflix, e quello prima ancora con The young Pope di Paolo Sorrentino, poi visto su Sky. Non era cinema né televisione l’opera del regista napoletano, o forse era entrambe le cose? Era di certo una lunga narrazione costruita con lo stile dell’autore: corposa creatività visiva unita a una scrittura che vuole essere spiazzante e provocatoria, ma che non sempre è chiarissima.
Prima ancora, alla Festa del Cinema di Roma del 2015 passò Fargo – la serie, bellissima davvero! Per ribadire una pace sancita, o quantomeno una tregua, tra i due storici litiganti. Forse ancor di più una disperata alleanza per difendersi, consolarsi e organizzarsi di fronte a un nuovo – ancora parzialmente misterioso – che avanza. Fatto di visualizzazioni, di viralità (altre parole da memorizzare) e di altre diavolerie. E allora, accanto alla fiction in chiaro, quella spesso rassicurante da prima serata, con un linguaggio il più delle volte riconoscibile e temi (a volte anche seri) trattati con una certa morbidezza, ecco il boom delle serie d’autore agili ma articolate, scorrevoli ma anche impegnative, di genere e insieme d’autore, capaci di intrattenere ma al contempo di veicolare contenuti delicati, scottanti e “politici”, mediante i personaggi o il tema stesso trattato.
Di suicidio assistito, per esempio, ha parlato nel 2017 la canadese Mary kills people, ed è possibile scovare l’attualità – o l’aspetto politico – anche dentro serie in costume ambientate nel passato. La recente Chiamatemi Anna, per fare un altro esempio – tratta dal romanzo Anna dai capelli rossi di Lucy Maud Montgomery – affronta (soprattutto nella seconda stagione, del 2018) i temi della diversità (anche sessuale) e del bullismo tra gli adolescenti. Tale serialità, spesso anche violenta – pensiamo solo a crime come Gomorra o Narcos, per dirne alcuni, è più cinema che televisione per la libertà con cui approccia ai contenuti, per la posizione radicale che prende, fosse anche solo stilisticamente, e perciò, vista la facilità con cui fa breccia nel pubblico, è uno strumento piuttosto potente. Che a volte, forte del suo grande successo, può arrivare a sfociare nella televisione in chiaro assetata di ascolti. Ed è questo l’aspetto più delicato della faccenda: la capacità che questi prodotti hanno di orientare il gusto e i pensieri dello spettatore. Non tanto la domanda, legittima, se sia opportuno accostare l’aggettivo “televisivo” alla parola serialità.