Netflix, festival e distribuzione
Hanno tutti ragione! O meglio, ognuno ha le proprie ragioni. Le ha avute il Festival di Cannes a maggio scorso, quando ha messo al bando ogni film targato Netflix. Perché il cinema è la sala: lo schermo grande per cui l’autore ha concepito l’opera. Quello da guardare tutti insieme. Fuori di casa, sospesi per un paio d’ore dal resto del mondo e dalla propria vita. In quell’utero silenzioso e riposante, vellutato e buio, novecentesco e magico, cui si accede pagando un biglietto. Ha le sue ragioni anche Venezia, però, che invece i film di Netflix se li è presi: cinque, e a uno di questi, quel Roma di Alfonso Cuarón – film messicano e in bianco e nero – ha pure consegnato il Leone d’Oro. Perché secondo Venezia, il cinema sono prima di tutto i film: le opere e il loro valore. E se sono belli – come lo è Roma e come lo è Sulla mia pelle di Alessio Cremonini (distribuito da ieri, 12 settembre, sia in sala che su Netflix) – chi se ne importa se la gente potrà vederli su un computer o in un cinema..
Hanno le loro ragioni quelli che contestano questo delicato cortocircuito, ovviamente, questo crocevia storico, questo spiazzante mutamento, questa ennesima e complessa crisi del cinema. Ha le sue ragioni l’Anac (Associazione nazionale autori cinematografici) che insieme alla Fice (Federazione italiana cinema d’essai) e all’Acec (Associazione cattolica esercenti cinema) ha protestato per la presenza in concorso a Venezia di film non destinati alla sala. «Riteniamo iniquo – si legge nel loro comunicato − che il marchio della Biennale sia veicolo di marketing della piattaforma Netflix, che con risorse ingenti sta mettendo in difficoltà il sistema delle sale cinema italiane ed europee. Il Leone d’Oro, simbolo della Mostra internazionale d’arte cinematografica, da sempre finanziata con risorse pubbliche, è patrimonio degli spettatori italiani: il film che se ne fregia dovrebbe essere alla portata di tutti, nelle sale di prossimità, e non esclusività dei soli abbonati della piattaforma americana».
Ragionamento condivisibile, ma è anche vero – e qui sta la complessità della faccenda – che Netflix porta in casa della gente ciò che per molte persone da casa è lontano: i bei film che non arrivano facilmente nelle periferie italiane, illuminate solo dalle astronavi a multisala, quelli che spesso il grande pubblico non allenato e distratto non sa nemmeno che esistano. Anche se portano sul petto un grosso Leone D’Oro, per certe pellicole d’autore avere spazio in una sala “popolare” è una difficile impresa. In più il cinema costa, non tantissimo ma abbastanza per una famiglia che conta pure l’aria che respira per arrivare a fine mese. E per superare l’ostacolo, questa si è piegata da tempo a strumenti fuori legge ben più nemici del cinema rispetto a Netflix, che a modo suo – pur guadagnando tantissimi soldi, astutamente e legalmente – combatte il demone potente della pirateria digitale: piaga che da anni dissangua la settima arte.
Hanno le loro ragioni, per ciò, quelli che (sempre di più) hanno un abbonamento a Netflix. Gente di ogni tipo, compresi quelli che corrono tutto il giorno per campare, e amando il cinema possono accedere con pochi soldi a un’ampia scelta di prodotti, stabilendo con calma quando guardarli, senza problemi di parcheggio o di traffico, in un privato che ormai ha nettamente accorciato la distanza con la sala in termini di qualità audiovisiva.
Più di tutti hanno ragione quelli che in una sala cinematografica lavorano, i quali da tempo, poveretti, sentono tremare la terra sotto i loro piedi. Una crepa dopo l’altra, senza il tempo di soffermarsi a filosofeggiare sull’argomento, perché per loro è mera questione di lavoro, quindi di pane e sopravvivenza. Le associazioni citate chiedono ad Alberto Barbera, direttore di Venezia fino al 2020, «di rivedere per il prossimo anno la sua posizione» e al ministro della Cultura di «varare con la massima sollecitudine norme che regolino anche da noi, come avviene in Francia, un’equa cronologia delle uscite sui diversi media». Barbera ha risposto che le polemiche su questa vittoria sono effetto di una nostalgia che non si misura con la realtà di Netflix e di Amazon, e che «difendere il passato oggi significa solo perdere opportunità domani».
In mezzo a questi due giganti c’è un presente pieno di dubbi e di opportunità, arido e insieme fertile, perché se il film in streaming uccide la sala – e quindi il miglior modo di intendere il cinema – potrebbe anche salvare i film dalla stretta soffocante di tanto ibrido intrattenimento che erutta dal web, semplicemente giocando sullo stesso terreno in cui questo magma ribolle: lo schermo di un computer o peggio ancora di uno smartphone. La storia dirà se il film e la sala sono amanti inseparabili, o se questo amore lungo più di un secolo stia ormai tristemente appassendo. Comunque vada, lo spettatore non deve mai dimenticare due principi fondamentali dell’essere umano: l’importanza dell’osservare, dello scoprire e del conoscere, e quella di condividere con l’altro ogni visione, scoperta e pensiero. Se il cinema dovesse rinunciare alla sala, egli dovrebbe suo malgrado continuare a vedere i film, e condividerli lo stesso con il prossimo. Meglio se fuori di casa, in uno spazio condiviso, da animale sociale quale è, qual è sempre stato e quale sempre sarà. Speriamo. Speriamolo davvero.