Netanyahu VI subito all’attacco

Quello varato a fine dicembre appare come il governo più intransigente della storia di Israele: chiuso al dialogo sia con i palestinesi che con quasi la metà degli israeliani. Un duro colpo a chi, in tutto il mondo, ama e stima entrambi i popoli della Terra Santa
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Gerusalemme, il primo ministro Benjamin Netanyahu alla riunione settimanale di gabinetto (Ronen Zvulun/Pool Photo via AP)

Due giorni prima di capodanno, giovedì 29 dicembre, si è insediato in Israele il governo guidato per la sesta volta da Benjamin Netanyahu – leader del partito di maggioranza relativa, Likud. Dopo le elezioni vinte a novembre scorso (la quinta consultazione in meno di 2 anni), Netanyahu guida una coalizione di maggioranza (64 seggi su 120) ancora più a destra che in passato. Al Likud e ai 2 partiti ultraortodossi, Ebraismo della Torah Unito e Shas, si sono infatti affiancate anche 3 formazioni di destra estrema: Partito sionista religioso, Potere ebraico, e Noam (una coalizione di 3 partiti minori).

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Itamar Ben-Gvir, ministro della sicurezza nazionale nel nuovo governo di Benjamin Netanyahu (Atef Safadi/Pool Photo via AP, File)

E le prime mosse del nuovo esecutivo non si sono fatte attendere: il 2 gennaio il neo ministro israeliano per la Sicurezza Nazionale, l’avvocato quarantaseienne Itamar Ben Gvir, ha fatto una “passeggiata” su quello che per gli ebrei è il Monte del Tempio di Salomone e per i musulmani di tutto il mondo la Spianata delle Moschee – il terzo sito più sacro del mondo islamico sunnita dopo la Kaʿba, a La Mecca, e la Moschea del Profeta, a Medina. Una “passeggiata”, quella di Ben Gvir, che fa tornare alla memoria l’incubo di quella di Ariel Sharon del 28 settembre 2000, che aveva scatenato la Seconda Intifada.

Itamar Ben Gvir, l’autore di questa iniziativa, che non è stata con tutta probabilità intrapresa senza l’assenso di Netanyahu, non è solo il nuovo ministro israeliano per la Sicurezza Nazionale, ma anche il leader di Otzma Yehudit (Potere ebraico), un partito di estrema destra, al governo per la prima volta, che sostiene l’assoluta sovranità ebraica sul Monte del Tempio e su tutta la Cisgiordania; chiede la cancellazione degli accordi di Oslo e rifiuta ogni negoziato con l’Anp; è favorevole agli insediamenti ebraici in Cisgiordania e all’espulsione di tutti gli arabi che si oppongono allo Stato ebraico. Nei giorni scorsi, inoltre, Ben Gvir ha dato mandato alla polizia di rimuovere tutte le bandiere palestinesi dai luoghi pubblici, definendole uno strumento di “terrorismo”.

Intanto, il 4 gennaio, Netanyahu ha annunciato una prossima riforma del sistema giudiziario israeliano, in particolare con l’introduzione di una norma che limiti i poteri della Corte Suprema: se venisse approvata, il Parlamento sarebbe in grado di annullare, con un voto a maggioranza assoluta (61 su 120), le decisioni della Corte Suprema, stabilendo cioè un controllo politico sul maggiore organo giudiziario del Paese e sulla magistratura.

L’operazione è sostenuta dal nuovo Ministro della Giustizia, Yarin Levin, amico e collaboratore di Netanyahu di lunga data; e lui stesso estensore della proposta di riforma del sistema giudiziario, che prevede anche la riduzione del potere dei tribunali locali e un maggiore controllo sulle nomine dei giudici. Levin ha “strategicamente” presentato la sua proposta di controllo politico della Corte Suprema poco prima che la stessa Corte esaminasse i ricorsi contro la nomina a Ministro dell’Interno e della Salute di Arye Dery, del partito ultraortodosso Shas, che ha recentemente patteggiato la sospensione della pena in un processo a suo carico per evasione fiscale.

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Migliaia di israeliani in protesta contro i piani del governo di Netanyahu a Tel Aviv(AP Photo/ Tsafrir Abayov)

La reazione dell’opposizione è stata indignata: 10 mila persone sono scese in strada a Tel Aviv il 7 gennaio, protestando contro quello che hanno definito il “colpo di stato portato avanti dal governo criminale”, secondo quanto riferisce il quotidiano online Times of Israel.

Anche l’Anp e molti palestinesi si sono fatti sentire: l’Autorità palestinese, in particolare, si è rivolta all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ottenendone il sostegno per presentare ricorso alla Corte internazionale dell’Aia, che sarà quindi chiamata ad esprimere un parere sulla legalità dell’occupazione militare israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est.

Il governo israeliano ha risposto con toni indignati a questo ricorso palestinese all’Onu, decidendo alcune pesantissime misure di ritorsione finanziaria e annunciando che intende congelare i progetti edilizi palestinesi nell’Area C, quasi il 60% della Cisgiordania.

In meno di due settimane l’indignazione di tutti contro tutti ha ridotto a zero nel Paese ogni pur esigua prospettiva di dialogo, alzando i toni della contrapposizione con quasi metà degli elettori israeliani, peraltro in gran parte moderati. Le iniziative annunciate dal governo rimettono poi in discussione a livello mediorientale e internazionale gli accordi, pur discutibili, faticosamente raggiunti negli ultimi anni.

Mi torna alla mente quanto scriveva Ugo Tramballi in “Aspettando la prossima Intifada” a novembre scorso: «I palestinesi non hanno quasi mai cercato di comprendere la psicologia del popolo ebraico, costruita dalla sua drammatica storia; come gli israeliani si sono quasi sempre rifiutati di comprendere le ragioni dell’ostilità del popolo palestinese. È questo il nodo del conflitto che anziché diluire, il tempo consolida». Una dura constatazione che ho sempre sperato venisse smentita dalla storia. Per quanto mi riguarda, voglio continuare a sperare in questa smentita, e sono certo di non essere solo ad amare e stimare entrambi i popoli dell’unica Terra Santa.

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