Nessuno escluso
Migliaia di piccole barchette di carta, una per ogni immigrato che ha perso la vita in mare, durante i viaggi della speranza per approdare a una costa amica. Bianche quelle degli adulti, rosse, come il colore della maglietta del piccolo Aylan, quelle dei bambini. Esclusi dalla vita e dal sogno di un futuro. I loro nomi si perdono tra le onde del mare nella video installazione d’apertura della mostra (salutare pugno nello stomaco) realizzata dalla Comunità di Sant’Egidio, in collaborazione con il MIBAC, al Vittoriano di Roma. Poco oltre, un gioco di luci trasforma “ME” in “WE”, “io” in “noi”, un invito a sciogliere il proprio isolamento egoistico per fare posto agli altri.
L’allestimento, curato da César Meneghetti, regista, artista visuale e videoartista italo-brasiliano di fama internazionale, è un viaggio che attraverso i dipinti, le installazioni, le fotografie e gli scritti dei 52 artisti partecipanti, persone con disabilità mentale, tocca questioni universali, perennemente riaffioranti, che interpellano il singolo e la comunità: integrazione e isolamento, solidarietà e indifferenza, accoglienza e respingimento, dialogo e paura. Come il precedente “IO_Io è un altro”, presentato alla 55a Biennale di Venezia, il progetto è il frutto di un percorso di laboratori, organizzati fin dal 1985 dalla Comunità di Sant’Egidio, per rispondere al desiderio di formazione e integrazione di persone con disabilità, provenienti da storie di solitudine e di esclusione, da periferie urbane ed esistenziali, da istituti psichiatrici o dai margini della società.
Pienamente “inclusi” nella dinamica del gruppo, oltre ad apprendere diverse tecniche artistiche, i partecipanti si aprono al dialogo e alla realtà che li circonda. Spesso, attraverso la vendita delle opere, concorrono a sostenere progetti di solidarietà della Comunità, come il programma “B.R.A.V.O.” (Birth Registration for All Versus Oblivion), per la registrazione anagrafica dei bambini in molti paesi in via di sviluppo.
«Vorrei disegnare come Picasso che fa le donne un po’ strane», spiega Giovanni in una intervista, proposta con una video installazione accanto ad un autoritratto che ne rivela tutto il ricco mondo interiore (“Uomo + cavallo”, tempera su tela). «Io ho cercato di fare come lui. Io pitturo per aiutare gli altri, perché l’amore è la cosa più bella che c’è». Anche Annamaria si mostra e racconta di sé: per vent’anni è stata rinchiusa, al buio, dentro il manicomio di Santa Maria della Pietà, per uno shock causato dall’improvvisa morte del giovane padre, quando lei, di anni, ne aveva solo sedici. Alla mostra racconta, con liberata creatività, la sua rinascita, attraverso due opere dai colori solari (“Acrilici su ante di legno recuperate”). Una “gabbia” in pancali di legno, opera di Roberto Mizzon, evoca le barriere degli ospedali psichiatrici, a 40 anni dalla loro chiusura (Legge 180/78).
Ancora: Filomena viveva a Trastevere, nel cuore di Roma. Anziana, lunghi capelli raccolti, comunicativa e vivace, girava per i vicoli del vecchio rione, talvolta un po’ svagata. Un giorno venne ricoverata in un cronicario, per volontà dei parenti, perché “non ci stava più con la testa”. Rasata dei suoi capelli e perciò privata della sua identità, Filomena si è lasciata morire. Dallo sdegno per la sua storia, simile a quella di tanti anziani emarginati e soli, di cui la Comunità di Sant’Egidio si fa carico, sono nate opere come la tela di grandi dimensioni “I riccioli di Filomena”, ma anche testi di disarmante dolcezza («Mia madre è morta vecchia, ma io ho pianto tanto, come se era giovane») e installazioni realisticamente crude (il pannello “Tutti fuori”, con riferimento agli anziani dai cronicari).
Per aprirsi agli altri, prendersene cura, infrangere pregiudizi o sensi di minorità non servono doti particolari. È un viaggio possibile a tutti, davvero nessuno escluso.
“Inclusion/Exclusion”, Gallerie Sacconi, Vittoriano, prorogata fino a febbraio 2019