Nessuna questione “giovani”

Ancor meglio delle attività originarie di un’agenzia di rating, sono i curricula dei politici a dirmi quanto la sfera economica fagociti senza soluzione di continuità quella politica: in una fase economica mondiale paragonabile solo a quella del ’29 accade che vengano “acclamati in campo” due Primi Ministri (di Grecia e Italia) e un Governatore della BCE, accomunati, tra le altre cose, dall’aver “bazzicato” nella medesima banca d’affari (tra le più grandi del mondo e, ovviamente, statunitense). La filosofia politica insegna che se i poteri propri di un’arena sociale si impongono anche in un’altra sfera, che non è propria, allora quella società è già, di fatto, priva di libertà. Così è, dunque, se i poteri propriamente economici agiscono, in modo immediato seppur velatamente, in spazi che sono invece propriamente politici. Però quando nel predominio di una sostanziale “non libertà” l’apparenza è fatta salva in una forma che rispetta il senso delle istituzioni, allora c’è ancora uno spazio, anche se minimo, perché la cultura non arresti il proprio cammino (che è invece, intrinsecamente, di pura libertà). E nessuno può dubitare della levatura dei personaggi politici sopra citati, garanzia di una moralità che fa venir voglia di “guardargli sotto la veste” perché si è sicuri di non scoprire alcuna vergogna: per tal ragione ritengo che in questo momento storico almeno la forma è salva.

 

In Italia da poco meno di un ventennio a questa parte (e ciò significa che i maggiorenni di oggi sono nati e cresciuti al grido «Meno male che Silvio c’è!») è mancata proprio l’apparenza di una forma che rispettasse il senso delle istituzioni. Lo spazio della cultura, che è spazio di libertà, è venuto meno: nel libro squisitamente umano della cultura alla pagina “Italia”, l’intervallo temporale 1994-2011 è oscurato da uno spesso tratto nero (o, peggio ancora, indicato da un quanto mai deprimente “omissis”). Quanto grossolana allora appare ogni motivazione o argomento addotto a sostegno di una determinata “sostanza”, quando il problema è a monte e riguarda la forma. Stupirsi del perché all’estero non si chiedano «perché gli italiani non hanno votato per l’opposizione?» continuando invece a domandarsi unicamente «perché votano Berlusconi?», è allora un ulteriore tentativo (per quanto originale) di indagare sulla sostanza, aggiungendo elementi che aumentano ulteriormente la chiassosità del dibattito. La forma in politica precede la sostanza. Guai a quella apparenza che non rispetti il senso delle istituzioni: quanto buio sarà allora il cammino di quella democrazia. Una politica che perde di vista la forma quale oggetto continuo delle proprie attenzioni e preoccupazioni, non conduce a delusioni ma a tragedie sociali. Come cattolico allora mi chiederei: «Come i cattolici italiani hanno contributo a questo stallo?». Occorrerebbe soffermarsi molto più accuratamente. Qui mi limito solo a ribadire un aspetto sostanziale per quanto scontato: purtroppo, oggi, l’apporto dei cattolici è distinguibile con difficoltà da quello dato dalle gerarchie ecclesiastiche. E la gerarchia non è chiamata ad operare anche nell’arena politica, perché le sue prerogative riguardano la sfera religiosa: un tale sconfinamento conduce (analogamente a quello dell’economia nei confronti della politica, sopra descritto) a una società in cui la libertà risulta compressa. Demonizzazione e “snobizzazione” dell’avversario politico (Radio Maria docet ai i suoi milioni di ascoltatori ogni giorno) insieme alla costante proclamazione di valori non negoziabili (CEI in testa, e i suoi tentativi di trovare un preciso riferimento politico) sono due dei molteplici interventi che mostrano come il contributo dei cattolici a questa “tragedia della forma” è stato ed è decisivo: una democrazia si fonda proprio sulla consapevolezza della imprescindibile diversità fisica degli attori in gioco (portatori di altrettanto diverse posizioni) e sulla totale assenza di valori non negoziabili fuorché uno, il negoziato. Benedetto l’onore che ci fa il nostro avversario politico quando batte la mano sul proprio scranno dicendoci «Per me non è come la pensi tu!». Oggi da parte di cattolici raramente, purtroppo, vengono istanze politiche capaci di tradursi in prassi costruttive.

 

A mio avviso, in ultimo, non c’è alcuna questione giovanile. In un periodo storico del genere non può che essere profetico lo sguardo verso i “nuovi adulti”. E lo sguardo profetico non significa guardare a loro come al futuro: significa lasciare il proprio posto. I politici devono lasciare le proprie cariche senza badare a quanto matura sia la generazione che segue. Perché la politica non è una missione: chi la intende così si pone sulla pericolosissima linea dispotica. Non c’è chi fa bene o chi fa male. C’è chi fa e cede il passo. C’è chi arriva e cerca di far meglio. Chi fa e resta ha già fallito senza bisogno di indagarne a fondo l’operato: la politica come missione non è più politica. La politica è onore e pregio di servire la propria gente: chi pensa che il proprio valore sia tanto assoluto da poter restare per un ventennio al servizio della propria gente non è diverso da uno qualsiasi dei dittatori che il mondo (Italia compresa) ha già, purtroppo, conosciuto. Aver così tanta paura di cedere la poltrona significa esser ad essa troppo legato, significa non riconoscere che altri possono fare meglio, significa aver così poca fiducia in quello che si è fatto da ritenerlo agilmente rimuovibile dal prossimo di turno. Ma come si fa a fare politica e poi non avere fiducia nemmeno in ciò che si è fatto? Significa in ultima istanza aver perso la meta: significa essere diventati dei fanatici. Il politico che resta tale per più di 10 anni allo stesso posto diventa un ‘‘non senso’’ in sé. E anche volendo fare un’analisi, a cosa dovrebbe guardare la nuova generazione? Il vuoto di ideali non è davanti a sé ma dietro di sé, ed è totalizzante: il proprio benessere e quello della propria famiglia è il valore italiano dominante. Uscire dall’orizzonte personale significa escludere ogni possibilità di trovare valori: la vecchia generazione si è limitata a trasmettere alla nuova solo quello. Ma allora come possiamo chiederci «In cosa credono i giovani di oggi?»: perché, i giovani di ieri in cosa hanno creduto? Anche nelle famiglie annoverate tra le fila dei movimenti ecclesiali, che sulla carta dovrebbero essere “evangelicamente” aperte, il primario obiettivo conculcato ai figli è quello del benessere e della carriera: chi non si è mai sentito dire almeno una volta dai propri genitori: «A te non è mancato niente, hai tutti i mezzi per diventare qualcuno e guadagnare. Per me non è stato così». È fittizio questo approccio: ed è stato l’approccio con cui siamo cresciuti. In realtà la vecchia generazione in Italia (quella del dopoguerra) ha ricevuto, senza aver fatto nulla per meritarla, una automobile con il serbatoio pieno, e nel tempo ha solo pensato ad esaurire il carburante senza preoccuparsi di fare rifornimento. Adesso la macchina sta per esaurire anche la riserva rimanente, la spia rossa è accesa da almeno tre lustri, ma ancora questa vecchia generazione si ostina a restare alla guida e decidere la direzione: gli resta poco da vivere e quel po’ di carburante rimasto gli può bastare. I giovani che stanno dietro non hanno altro modo per sopravvivere se non con un intervento energico che, quindi, non mi preoccupa. Davanti a noi abbiamo una generazione che è incapace di fare un passo indietro. E già in questa incapacità c’è tutto il cuore del suo fallimento.

 

I ‘‘non senso’’ sono molteplici e dimostrano come la questione non riguarda i giovani ma la vecchia generazione. Interroghiamoci allora su questa. Io con onestà verso me stesso trovo patetico e privo di lucidità intellettuale ogni tentativo di parlare dei giovani. Lasciamo loro lo spazio. La vecchia generazione è tale nella misura in cui contribuisce in termini di esperienze e prassi che può trasmettere, ma non lo è più se con presunzione e con un mal riposto senso della responsabilità rimane dov’è a svolgere un ruolo attivo. Perché è vostra la generazione che ha deciso che i deputati regionali dovessero guadagnare quanto la Merkel, e che i vitalizi ai parlamentari nazionali dovessero essere da top-manager di multinazionale. È vostra la generazione che ha votato una legge che non permette di indicare da chi farci rappresentare. È vostra la generazione che ha permesso a un uomo, il quale all’estero è considerato nella migliore delle ipotesi un maneggione, nella peggiore un mafioso, di essere la nostra “faccia” nel mondo per quasi un ventennio. Il prolungarsi dell’accanimento terapeutico su questa classe politica italiana significa aumentare le porzioni di nuova generazione che maturerà con la stessa propensione alla “non-progettualità”. Così tanto è stato raschiato che il fondo del barile si è lacerato: questo disastro attuale è l’eredità che la vecchia generazione lascia alla nuova. Per tal ragione è fittizia e insensata la preoccupazione del «chi verrà dopo» o del «quanto sia matura la nuova generazione e di quali valori sia portatrice». Il solo gesto del mettersi da parte abbandonando poltrone occupate da troppi anni e lasciando spazio a leve nuove, è l’unico primo passo possibile per interrompere una rischiosissima apnea e ridare fiato alla nostra democrazia.

 

Federico Sartorio, Laureando in Scienze politiche, Catania

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