Nessun rimpatrio per i Rohingya

Situazione sempre più difficile per i profughi bengalesi scacciati dal Myanmar con la forza e che hanno trovato rifugio in Bangladesh. Fino ad oggi, nessun ritorno a casa

L’investigatore per i diritti umani, per conto della Nazioni Unite in Myanmar, Yangee Lee, la settimana scorsa ha chiesto formalmente al governo di Naypyidaw di «smantellare il sistema di discriminazione sistematica» contro I profughi rohingya e di restaurare un sistema di diritti civili e di proprietà per gli appartenenti a questa minoranza etnica. Yanghee Lee, parlando al Consiglio della Nazioni Unite per i diritti umani, l’Unhrc, ha affermato che le condizioni per il rimpatrio sicuro dei 700 mila profughi che ancora sono bloccati in Bangladesh non sono mature; l’inviato Onu ha anche fatto notare che il promemoria firmato tra le Nazioni Unite e il Myanmar per il rimpatrio dei rohingya non è nemmeno stato reso pubblico.

Il che la dice lunga sulla lotta politica interna in Myanmar tra le diverse fazioni: in pratica tra coloro – gli estremisti buddhisti che influenzano i militari – che non vogliono far tornare i profughi nelle loro terre e chi, invece – come Aung San Suu Kyi ed il suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia –, vuole che il Paese raggiunga uno standard internazionale. Il che significherebbe adempiere i propri impegni nei confronti dei profughi rohingya, facendoli tornare a casa, come la comunità internazionale esige.

Htin Lynn, ambasciatore del Myanmar per le Nazioni Unite a Ginevra, ha affermato al Consiglio per i diritti umani che il suo governo non può lavorare con Lee in quanto manca di imparzialità ed ha chiesto la sua sostituzione. Mercoledì scorso, Amnesty International ha accusato il capo militare del Myanmar ed altri generali di crimini contro l’umanità, per aver «studiato e implementato» attacchi sistematici contro i rohingya: ha inoltre chiesto un’incriminazione formale presso la corte che giudica i crimini contro l’umanità all’Aja. Quello che è avvenuto, ormai quasi un anno fa nello Stato del Rakhine, fu una vera e propria pulizia etnica, cioè un’azione militare ben preparata per scacciare tutti i presenti in quello Stato dalle loro terre, fuori dal Paese, verso il Bangladesh.

Il nuovo rapporto parla proprio del generale comandante delle forze armate, Min Aung Hlaing e di 12 altri alti ufficiali che hanno pianificato e supervisionato tale politica per «pulire» lo Stato del Rakhine dalla minoranza «musulmana bengalese», non riconosciuta ufficialmente tra le 135 minoranze del Myanmar. Un rapporto dettagliato, quello di Amnesty International, di ben 186 pagine, con più di 400 interviste condotte sia in Myanmar che in Bangladesh dal settembre del 2017 fino al giugno 2018. Un’indagine precisa ed orribile, con dettagliate descrizioni dei metodi usati, con foto satellitari e documenti confidenziali militari.

La situazione al momento rimane molto tesa, e i profughi, ammassati in campi di fortuna a ridosso del confine, nel territorio del Bangladesh, non se la sentono di ritornare là dove i loro familiari sono stati trucidati, seppelliti, mentre sopra le fosse comuni le ruspe e il cemento hanno quasi cancellato ogni traccia. Anche i crimini condotti dall’Arsa, il Arakan Rohingya Salvation Army, la milizia musulmana che ha attaccato i posti di polizia in Myanmar, il 25 Agosto del 2017, sono stati documentati, come per esempio le uccisioni di dozzine di induisti, sempre nello stato del Rakhine.

Ora è tempo per la comunità internazionale di agire per metter fine a crimini atroci e portare alla giustizia gli ideatori ed esecutori della pulizia etnica. Intanto, le baracche costruite per il rimpatrio dei profughi rohingya, in territorio del Myanmar, rimangono vuote. Senza un’azione unitaria della comunità internazionale, non potrà essere assicurato ai rohingya un futuro più giusto e umano.

 

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