Nell’era della paura
Inizio queste mie riflessioni sul tema della paura – e specialmente della paura in Europa – con due immagini suggestive, una biblica e l’altra secolare.
Nel libro della Genesi Dio si rivolge all’uomo, in un momento drammatico, con queste parole: «Adamo, dove sei?». La domanda è indirizzata a uno che – pieno di vergogna e prigioniero della paura – ha cercato rifugio nella boscaglia per sottrarsi così allo sguardo di Dio, conscio della sua nudità esistenziale e della sua miserabilità. L’immagine ben si adatta a descrivere in termini piuttosto drastici la nostra attuale situazione europea: il nostro continente si barrica, si trincera nel suo presente che sembra senza vie d’uscita. L’Europa versa dunque in questo sottobosco, schiava dei suoi limiti e della storia delle sue colpe. Questo sottobosco è rappresentato da Idomeni, alla frontiera della Macedonia, dal filo spinato alla frontiera tra l’Ungheria e la Serbia, ma anche dalle tante situazioni di emarginazione all’interno delle nostre società. Applicando questo scenario biblico all’Europa che si rinchiude come una “fortezza” per mettersi al riparo dai migranti, quest’immagine indica ancora un’altra verità: ci pone davanti agli occhi il “sovrano europeo” come il vero senza tetto, senza patria, che vive la più fatale di tutte le fughe: quella da se stesso. L’Europa ha bisogno quindi di sentire nuovamente questa chiamata di Dio che la interroga circa il suo destino, la sua missione e la sua responsabilità per sé e per il mondo: «Adamo / Europa, dove sei?». Questa immagine di un’angustia esistenziale dalla quale solo Dio può liberare, ha un suo riscontro nelle visioni di smarrimento cosmico del soggetto moderno in un universo indifferente ed inospitale, secondo l’espressione del filosofo e matematico Blaise Pascal: «Il silenzio eterno di quegli spazi infiniti mi atterrisce». Si tratta di un senso di orrido e di spaesamento che infonde terrore all’essere umano abbandonato a se stesso e isolato e che è stato descritto nella storia dell’Europa come “perdita del centro” ovvero come “spaesamento metafisico”. La paura può dischiudere nuovi spazi La paura di perdere se stessi e il mondo può dischiudere però al contempo un nuovo spazio all’esperienza umana. Il poeta e primo presidente dell’allora Cecoslovacchia Vaclav Havel, guardando in retrospettiva le rivoluzioni pacifiche degli anni ‘89-’90 nei Paesi mitteleuropei, a suo tempo parlava della paura come “paura della libertà”: «Eravamo come prigionieri che si erano abituati alla prigione, e che poi, restituiti ad un tratto alla libertà tanto desiderata, non sapevano come usufruirne, disperati perché di continuo dovevano operare loro scelte e assumersi la responsabilità per la propria vita». Si tratta – così Havel – di affrontare questa paura, perché in tal modo essa «in definitiva può sprigionare in noi anche nuove attitudini. È proprio la paura della libertà che alla fine può insegnarci ad interpretare rettamente la nostra libertà. Ed è proprio la paura del futuro che può costringerci a far tutto il possibile perché il futuro diventi migliore»1. Il grande teologo protestante Paul Tillich descrive la paura come esperienza fondamentale dell’esistenza umana: «Il coraggio di esistere – afferma – ha le sue radici in quel Dio che appare quando si è dileguato Dio nella paura del dubbio»2. Vale a dire: solo l’esperienza della paura, come perdita di un tipo d’immagine di Dio, dell’essere umano e del mondo un tempo in voga e considerata immutabile, sprigiona ciò che Tillich ha chiamato, appunto, il “coraggio di esistere”. Il Dio vero – divino – compare per così dire nel cuore della paura e solo lui ci può liberare dalle paure. È proprio quest’esperienza a introdurre la persona umana negli orizzonti più profondi dell’esistenza. Dio si manifesta come volto dell’altro nell’apparente assenza di volto e di storia del mondo. Discendere negli inferi Si tratta quindi di discendere in questi “spazi inframondani” fatti di paure e smarrimenti personali e collettivi, per incontrare in essi quel Dio che ci salva. Non potrò mai dimenticare la mia visita nell’autunno scorso a Yad Vashem, il memoriale della Shoah vicino a Gerusalemme. Stordito avanzavo attraverso questo complesso architettonico che ha del labirinto, fino a giungere al “monumento per i bambini”, un ambiente sotto terra in cui la luce delle candele viene riflessa da specchi. In questo ambiente oscuro nel quale risuonano voci senza corpo che evocano senza sosta i dati di vita delle vittime innocenti, ho provato una nuova, profonda solidarietà pur immerso in questa paura primordiale, così fortemente iscritta in noi, che ci fa temere non solo fisicamente di venir annientati ma di essere cancellati anche dalla memoria della cultura. La testimonianza recata da quel luogo è diventata così mia esperienza personale: dare un luogo al nome smarrito, custodire la memoria del nome di Dio e delle sue creature. Ho scritto nel libro degli ospiti una frase del profeta Isaia ed ho espresso così sia il mio turbamento sia la mia speranza nell’indelebile vicinanza di un Dio Padre: «Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni» (Is 43, 1). A proposito delle grandi narrazioni europee sulla paura, il filosofo e teologo ceco Tomás Hálík descrive un’esperienza analoga: «L’audace progetto dell’unità europea non lo stiamo costruendo su terra inesplorata o non seminata. Lo costruiamo su una terra nella quale riposano tesori dimenticati e ruderi bruciati, una terra in cui sono sepolti dèi, eroi e criminali, e dove giacciono pensieri arrugginiti e bombe inesplose. Occorre di tempo in tempo darci una mossa e guardare il sottosuolo dell’Europa, i suoi inferi, come Orfeo che è andato in cerca di Euridice, come il Cristo messo a morte, disceso da Abramo e dai patriarchi dell’Antico Testamento»3. È nel punto “zero” Per me queste diverse “discese negli abissi della paura” trovano un punto di convergenza nel racconto del battesimo di Gesù come ci viene riferito da Matteo: «Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”» (Mt 3, 16-17). Si tratta di discendere con Cristo per raggiungere quel punto “zero” sopra il quale a sorpresa si spalanca il Cielo. E qui si manifesta l’intrinseca legge della vita divina: «Ciò che viene dall’alto deve germogliare dalla terra»4. In tal modo si instaura in, con e per Gesù quella solidale comunione in cui le persone si riconoscono non soltanto come “fratelli e sorelle” ma anche come “figli e figlie di Dio”, una comunione, pertanto, nella quale “dignità umana” e “somiglianza a Dio” formano un’inscindibile unità. La paura: luogo Nei suoi scritti dalla prigionia Resistenza e resa Dietrich Bonhoeffer ravvisa il fulcro dell’identità cristiana nella risposta alla domanda che Gesù rivolge ai discepoli nel momento della sua angoscia di morte nell’Orto di Getsemani: «Non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora?» (cf. Mt 26, 40). È l’invito a vegliare nella notte a fianco a Gesù, alla presenza di colui che vive rivolto verso il Padre in un mondo secolare, apparentemente senza Dio; presenza di Gesù che tramuta i luoghi più diversi in spazi in cui si sperimenta e si attende il dono della vita trinitaria5. In questo brano chiave del Vangelo di Matteo, la “paura” appare come luogo privilegiato per apprendere la fede, dove le nostre paure diffuse e “cieche” si tramutano in quell’autentico “timore di Dio” che vediamo in Gesù e che ci dona la vera conoscenza. – In, con e per Gesù avviene la liberazione dalla paura come un passaggio che attraverso la paura ci proietta verso Dio: l’apparente consegna (Preisgabe) del Figlio si tramuta in donazione (Hingabe) al Padre. – Cresce così l’unità come esperienza di fiducia reciproca basata sulla percezione del mistero intangibile di Dio e dell’alterità dell’altro. Soltanto l’incondizionato “accondiscendere alla distanza dell’altro” – afferma la filosofa ebrea Simone Weil – apre la via all’autentica vicinanza e comunione con Dio e con gli esseri umani6. – Si tratta pertanto di preferire ciò che è sconosciuto, a noi estraneo, marginale, quale luogo per apprendere la fede – in, con e per Gesù. – Ciò vale in particolare anche per i vari carismi e per la comunione tra di loro. In un incontro di “Insieme per l’Europa” con Jean Vanier, fondatore dell’“Arche” a Parigi nel novembre 2013, abbiamo potuto prendere coscienza che il compito dei carismi in fondo sta anche in questo: ricevere il “carisma del mondo“ e rispecchiarlo a questo stesso mondo. La testimonianza di Vanier ci ha impressionati profondamente: vivere in primo luogo non con e per i “destinatari” delle Beatitudini di Gesù, ma a partire da essi. Loro, che appaiono come bisognosi e come coloro che ricevono, sono invece i veri dotati di Dio e donatori, portatori di un messaggio, di una presenza di Dio, che dalle periferie deve nuovamente giungere al cuore delle nostre società. Una prospettiva che il già citato vescovo di Aquisgrana e filosofo della religione Klaus Hemmerle ha espresso in modo conciso nelle parole: «Lascia che io impari da te il messaggio che devo trasmetterti»7. Il coraggio di una nuova Un simile atteggiamento richiede però un’“inversione di marcia”, una vera metánoia nell’autocomprensione e nella visione del mondo di non pochi cristiani, una nuova fede nell’amore che Dio ha per il mondo e che ci è stato rivelato in Cristo. Al contempo si tratta di crescere in una “cultura della fiducia” che è anche fiducia – fondata in Gesù – nel Dio “secolare”, presente in questo mondo. Levando lo sguardo verso la cupola di questo edificio del Circus Krone8 viene da pensare ai trapezisti come i veri artisti di una “liberazione dalla paura”: sempre nel rischio della fiducia, del distacco e del protendersi nuovamente nello spazio a venire, come “saltatori nel sospeso” (H. Nouwen). Istante artistico tra “grazia e gravità”, sempre profetico e sempre anche precario, mai senza rischio. Ecco la “graziosità” dell’assenza di gravità, nella quale la creatura – sospesa in aria – si sa comunque retta e sostenuta, in certo qual modo “redenta” da sé e liberata per protendersi verso l’altro. Ancora Henry Nouwen: «Un saltatore deve saltare, un prenditore deve prendere, e il saltatore con le braccia allungate e le mani aperte deve fidarsi che il prenditore ci sia. … Ricordati che sei figlio amato da Dio. Lui ci sarà, quando farai il tuo lungo salto. Non cercare di afferrarlo. Sarà Lui ad afferrarti. Allunga solo le tue braccia e le tue mani – e fidati, fidati, fidati!»9. Herbert Lauenroth 1) V. Havel, Discorso di apertura ai Salzbur ger Festspiele 1990, in: Id., Angst vor der Freiheit, Rowohlt, Reinbek 1991, p. 104. 2) P. Tillich, Der Mut zum Sein, Stuttgart 1953, p. 137. 3) T. Hálik, Europas Seele, in «Kafka. Zeitschrift für Mitteleuropa» 11-2003, p. 17. 4) K. Hemmerle, Leben aus der Einheit, Herder, Freiburg Basel Wien 1995, p. 159. 5) D. Bonhoeffer, Widerstand und Ergebung (Resistenza e resa), Kaiser Verlag, München 1951, p. 180. 6) S. Weil, Schwerkraft und Gnade, Kösel Verlag, München 1952, p. 143. 7) Cf. K. Hemmerle, Was fängt die Jugend mit der Kirche an? Was fängt die Kirche mit der Jugend an?, in «Internationale Katholische Zeitschrift Communio» XXII (1983), pp. 306-317. 8) Il luogo dove si è svolto il Congresso di “Insieme per l’Europa”. 9) H. Nouwen, Our greatest Gift. A Meditation on Dying and Caring, HarperSanFrancisco, San Francisco 1994, pp. 60-61. |