Nell’Arca del circo
Anche quella sera lo spettacolo s’era concluso, ma lo scarso pubblico di quel piccolo circo male in arnese indugiava ad uscire dal tendone. Poco prima della fine, fra tuoni e lampi s’era scatenato un furioso temporale. Ora aveva perso molto della sua forza, ma, a parte qualche coraggioso, c’era ancora chi esitava ad avventurarsi sotto gli scrosci d’acqua.
Fra gli ultimi a restare c’erano nonno Umberto e il nipotino Stefano, ben contento di prolungare la sosta in quel mondo per lui incantato e così pieno di attrattive.
Mentre si guardavano attorno, ad un tratto un clown si affacciò da dietro una tenda e lanciò a loro due un invito a seguirlo. Incuriositi, nonno e nipote si mossero. «Se vi fa piacere, intanto che aspettate – sorrise il clown, in contrasto con la maschera triste dipinta sul viso – potete dare un’occhiata da vicino agli animali…».
«Evviva!» esultò il piccolo Stefano, tirando per mano il nonno e trotterellando dietro al clown triste-sorridente.
Si trovarono così, intercomunicante con la prima, in una tenda di ampiezza minore scarsamente illuminata da un faretto, il cui pavimento in terra battuta spariva sotto uno strato di paglia.
Gli animali, un gruppo piuttosto sparuto, erano un elefante di proporzioni ridotte, che a ragione nonno Umberto ritenne asiatico, un pony, un asinello sardo, due-tre caprette, un vivace cagnolino di razza indefinibile, quattro o sei colombe appollaiate sul loro trespolo…
«E quello cos’è?» domandò Stefano, indicando un quadrupede alto quanto lui, dotato di un lungo e folto mantello scuro nonché di un paio di magnifiche corna. «Ah, Bettino! È uno yak nano – lo informò il clown non senza orgoglio –; è il mio preferito, viene dal lontano Tibet…».
Poco prima li avevano visti esibirsi nei rispettivi numeri: niente di speciale, a dire il vero, ma che importava? Tutto era risultato elettrizzante per un bambino di città come Stefano, che certi animali può vederli soltanto al Bioparco o alla televisione.
Quelli del circo si lasciarono avvicinare fiduciosi, abituati com’erano all’uomo. Faceva un certo effetto veder convivere felicemente specie così diverse: non ultime le caprette, che ruminavano a loro agio tra le rugose zampe simili a tronchi di baobab dell’elefante.
«Posso toccarli?» chiese timidamente Stefano al nonno. «Certo – lo incoraggiò il clown –… Magari Ravana è meglio di no, non si sa mai. Anche se è l’elefante più buono che abbia mai incontrato nella mia carriera di circense».
Stefano non se lo fece ripetere. Per primo si accostò allo yak e lisciò delicatamente con le manine il suo pelo ispido e spesso. L’animale sembrò gradirlo, e girando verso di lui la testa ornata di quelle corna sorprendenti lo guardò con occhi umidi e buoni.
Al nonno l’intera scena ricordò dapprima certi dipinti di Segantini che rappresentavano contadini e animali in simbiosi, accomunati dal duro lavoro. Poi la pioggia battente con violenza sul tendone gli evocò un’altra immagine, biblica stavolta: quella dell’Arca di Noè, fragile guscio che avrebbe assicurato la sopravvivenza dell’uomo e delle specie animali quando, una volta finito il diluvio, un arcobaleno avrebbe suggellato il patto di Dio con le sue creature.
«Sembrano in ottima forma…» fu il suo commento ad alta voce. «Scherza? – replicò il clown –. Noi li trattiamo anche meglio degli artisti umani. Che faremmo senza di loro? Sa, al circo i bambini vengono soprattutto per vedere gli animali… Peccato che ci sono rimasti solo questi: prima erano di più, ma che vuole? Costa mantenerli, e oggi come oggi i circhi piccoli come il nostro hanno la vita estremamente dura… Come andrà a finire? Boh, speriamo bene…». E qui il clown dalla maschera triste divenne due volte triste.
A nonno Umberto quegli animali che cooperavano con l’uomo nell’arte di sopravvivere in un mondo che al divertimento offerto da un circo tradizionale preferisce spettacoli più sofisticati, non si sa se ispiravano più tenerezza o rispetto, rivestiti di una dignità su cui forse soltanto ora rifletteva.
Anche lui, come il nipotino, passò più volte la mano sulle loro groppe lanose, ascoltò il tremulo belato delle caprette e gratificò il cagnolino di una grattatina dietro gli orecchi. Si limitò invece a contemplare le gentili colombe come pure l’elefante Ravana incombente sui piccoli compagni come a proteggerli.
Nel far questo avvertì l’umile e rassicurante forza che proveniva dalla piccola Arca che proteggeva dalle tempeste della vita quella bene assortita famigliola di uomini ed animali. E, insieme, un senso di gratitudine per qualcosa di notevole che gli pareva di aver solo intuito, ma su cui più tardi si riprometteva di confrontarsi col nipote.
Certo che da quella sera nonno Umberto non riuscì più a guardare come prima un animale, un qualsiasi animale.
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