Nella valle del sale
Quest’oggi si va nel deserto, che qui in Egitto sorprende sempre perché appare d’improvviso non appena finiscono i canali di irrigazione che provengono da quella benedizione divina che è il Nilo. L’inquinamento mattutino è spaventoso, con il vento che pare assente, dopo che poche gocce di pioggia hanno coperto di sabbia del deserto tutta la città. Approfitto del viaggio di cento e più chilometri verso Alessandria per informarmi sulla Chiesa copto-ortodossa, circa il 7-10 per cento della popolazione. Una chiesa che in questi ultimi tempi ha sviluppato nuovi rapporti con le altre chiese cristiane in uno spirito ecumenico assai pronunciato, facendo nel contempo spazio al proprio laicato e alle donne. Più problematici sono i rapporti con il mondo musulmano, come è stato evidenziato dal recente caso di Alessandria, in cui tre persone sono rimaste uccise e trecento ferite in scontri con la polizia per banali contrasti interreligiosi. Dai monaci Il nutrun era il sale con cui venivano mummificate le salme dei faraoni. Da nutrun, ecco Wadi Natrun, la valle del sale, oasi oblunga che si estende per una ventina di chilometri a sud dell’autostrada per Alessandria. D’improvviso, dopo alcuni chilometri di una strada che sembra lottare strenuamente contro le forze oscure del deserto e della sua sabbia invadente, ecco una sorta di fortino, protetto da mura alte una decina di metri, intonacate di fresco e dipinte col colore della sabbia, quello che meglio protegge dal calore impietoso di queste parti. Dal profilo della roccaforte spuntano due o tre campanili, sovrastati dalla tipica croce ortodossa. È domenica e, nonostante la giornata di festa qui in Egitto sia il venerdì, la folla è tanta. La chiesa antica ospita numerose famiglie che fanno battezzare i loro piccoli vestiti graziosamente di bianco. Ci saranno quattrocento persone, in un misto di odori umani e di profumi d’incenso e cera. Come nelle moschee, anche qui tocca lasciare le scarpe all’esterno della chiesa. Il monastero di San Bishoi, una vera e propria cittadella, è uno dei quattro insediamenti copto-ortodossi della vallata. Uno di questi, consacrato a san Macario, è quasi sempre chiuso al pubblico, perché l’attuale vescovo vuole che i suoi monaci vivano la regola originaria del monachesimo egiziano, quella ispirata da Antonio il grande e codificata da Pacomio: tra le norme, c’è quella dell’assoluta separazione dai fedeli. Papa Shenouda III, la guida spirituale dei copto-ortodossi, proviene da questo monastero di San Bishoi, e vi ritorna appena può. Tra il settembre 1981 e il gennaio 1985 è stato qui confinato dal presidente Sadat, per la violenta persecuzione del regime contro la Chiesa copto-ortodossa che aveva portato in prigione una cinquantina di vescovi e sacerdoti, e centinaia di laici. Il motivo di tale persecuzione era la costruzione abusiva di nuove chiese, accusa rivelatasi infondata. Il governo, tra l’altro, aveva arrestato nello stesso tempo anche una dozzina di imam di Al-Azhar, in modo che non si potesse accusare il potere di avere fatto discriminazioni di sorta. Poi, l’8 ottobre dell’81 Sadat fu assassinato, e il suo successore Mubarak cercò di sistemare la faccenda ripristinando i principali diritti della comunità cristiana. Abuna Philippos Ecco abuna Philippos, un padre sulla settantina dal sorriso intelligente ma gioviale, un uomo d’azione che è diventato uomo di preghiera. La gente lo cerca e gli bacia la mano. Anch’egli, come la maggioranza dei suo confratelli, è entrato in monastero in età adulta, dopo essersi laureato in ingegneria ed avere esercitato la professione per alcuni anni. È in questo monastero dal 1972. In ogni caso – mi spiega con convinzione – sono diventato monaco per amore del Cristo e degli uomini. Ho capito che l’uomo non può vivere senza preghiera, come il corpo non può vivere senza cibo. Ha scritto diversi libri, tra cui uno sul complesso calendario copto e una storia della Sacra famiglia nel soggiorno egiziano. Con abuna Philippos cerco di penetrare nella vita dei monaci che appare tutta centrata sulla preghiera: in questo monastero sono 150, con decine di giovani che desiderano entrarvi. Talvolta, per feste particolari, si svegliano alle una meno un quarto, rimanendo poi in adorazione fino alle prime luci dell’alba, quando comincia la celebrazione eucaristica… Negli ultimi tempi, però, le visite ai monasteri si sono moltiplicate, e così taluni monaci lamentano la confusione che ne deriva. Ma abuna Philippos non condivide tale opinione: accogliere gli ospiti equivale a una vera opera di evangelizzazione. Per quanto riguarda i rapporti tra i quattro monasteri della regione, e con quelli disseminati nel resto dell’Egitto, va detto che sono buoni, anche se non sistematici, perché ogni abate ha completa giurisdizione sulla propria terra. Le visite reciproche, nelle feste, sono comunque previste. La vita comunitaria è limitata al lavoro e alle liturgie; ma non mancano coloro che sono impegnati per una maggior comunione fraterna. Faccio notare la presenza di alcuni telefonini nelle mani dei monaci… Sono solo esigenze dell’accoglienza – mi spiega abuna Philippos, che gioca proprio con il suo cellulare -, e sono pochi i monaci che lo possiedono con l’autorizzazione dell’abate. Ma la televisione non è entrata da noi, e così Internet. Non ne abbiamo bisogno, la nostra vita è piena. Dobbiamo continuare ad offrire a tutta la chiesa la nostra radicalità di vita, dobbiamo mantenere la sacralità del luogo. San Bishoi La storia di questo monastero data al IV secolo. Il fondatore, San Bishoi, nacque nel 320. Da allora qualche monaco è sempre rimasto nel convento, e ha continuato a curare l’intonaco perfetto dei muri spessi talvolta anche due metri. Ognuno ha compiti ben precisi nel convento: ci sono anche gli artisti, gli studiosi, chi fa la cucina e chi cura l’orto. Ed è proprio in questa vita che cresce l’amore reciproco tra i monaci, al di là di chi fa l’eremita e chi accoglie i visitatori, di chi mangia solo e chi in compagnia. Monaci che sono il nerbo della Chiesa copto-ortodossa, perché solo loro possono diventare vescovi, e sono loro che danno l’esempio della preghiera. Più di mille in Egitto, hanno aperto monasteri in giro per il mondo, anche a Milano. I giovani monaci Visitando il monastero – la biblioteca, le celle più antiche, la cappella riservata dei monaci affrescata da un loro piccolo Michelangelo, il vecchio mulino a trazione umana – ci trovia- mo in una vasta sala accogliente assieme a tre giovani monaci che rispondono ai nomi di abuna Sarabamoun, abuna Abdir e abuna Apollo. Nel corso di una conversazione assai profonda, emergono le visioni tradizionali ma nel contempo aperte dei miei interlocutori. Così per il primo, la virtù principale del monaco è la pazienza, il quarto voto nascosto, mentre per il secondo è la carità e per il terzo la preghiera. Tutti e tre appaiono ragionevoli in ciò: non nascondono la durezza della loro vita, durezza che non tutti i giovani che vogliono entrare in monastero riescono a immaginare. Da qui una serie di prove, al termine delle quali restano meno della metà dei candidati. Ad esempio, nel monastero non c’è nessuna fonte di informazione: anche dello scoppio di una guerra si viene a sapere dai visitatori, e allora si prega anche per la pace. La preghiera avvolge i fatti conosciuti e sconosciuti. La nostra forza non è mai altrove, mi dice abuna Apollo. Le ali La visita si conclude salendo gli erti e sconnessi scalini che conducono nelle cappelle di Sant’Antonio e di San Michele, nei due piani superiori della fortezza, protetta da un ponte levatoio. Nella prima cappella i tre giovani monaci intonano un suggestivo canto accompagnandosi con triangolo e cembalo, i due soli strumenti musicali ammessi nel monastero: un inno d’accoglienza che si perde nella notte dei tempi, fino all’epoca dei faraoni, intonato anche per accogliere Giovanni Paolo II in Egitto. Dice: Tu sei la pace, dammi la pace. Nella cappella di San Michele – che in tutti i conventi copti-ortodossi si erge sul tetto del monastero, perché l’arcangelo apra le sue ali a protezione dei monaci – si prega infine il Padre per la pace nel mondo. Commenta padre Sarabamoun: Noi siamo piccoli e pochi, ma il nostro grande padrone ci fa salire i gradini della fratellanza universale, nell’unica sua paternità.