Nella città malfamata

Articolo

Il v. 10, che riporta la frase dei discepoli sulla convenienza di non sposarsi, non sembra fornire un vero significato teologico se non come congiunzione tra la frase detta prima e quanto viene dopo. In questo senso, prepara il triplice detto di Gesù sull’eunuchia e fa come da piedistallo ad esso. In qualsiasi interpretazione celibataria, infatti, si riconosce che v’è una differenza sostanziale tra il non conviene sposarsi dei discepoli e il rendersi eunuchi di Gesù. Il v. 11: Non tutti possono capire questa parola, ma solo coloro ai quali è stato concesso , implica la presenza dello Spirito, che da ad alcuni di comprendere qualche cosa che gli altri non capiscono. Questa azione di Dio può essere paragonata solo in parte alla luce, perché la parola capire del versetto implica un’adesione profonda e completa. Si vuol sottolineare la gratuità del dono, e la non colpevolezza di chi non capisce. Se il v. 10 era stato una preparazione, il v. 11 già ci fa intravedere qualcosa di quello che è l’eunuco per il regno dei cieli. E veniamo al trittico: gli eunuchi naturali, sia del primo caso che del secondo caso, non sono stati ricordati solo per elencare le varie possibilità; essi sono come la contrapposizione al terzo eunuco, quello dello spirito; ma, al tempo stesso, quest’ultimo è collegato, nell’elenco, agli altri: cioè, non è molto diverso dagli altri. Come s’è visto, infatti, Gesù non parla qui solo di un proposito di celibato, ma di una impossibilità esistenziale psichico-morale di sposarsi. Impossibilità che solo un particolare contatto divino con riflessi sull’umano può consentire. Gesù, perciò, presenta delle persone che a causa del regno dei cieli sono diventate come gli eunuchi nati tali dal ventre della madre o resi tali dagli uomini. Nel Nuovo Testamento, abbiamo l’esempio di Paolo che diventa cieco al contatto del Risorto. E, nella storia della Chiesa, si contano, forse, molti più eunuchi di quello che si pensi per il regno dei cieli. Basta pensare a un Agostino, e a schiere di vergini e di celibi che hanno attualizzato le parole di Gesù così belle e così forti. Il regno dei cieli di cui parla Matteo è sinonimo di Dio ed è sinonimo di Cristo; nei vangeli indica sempre qualcosa di escatologico, qualcosa che deve venire e che darà compimento alla sovranità di Dio. La motivazione causale per il regno dei cieli, diventa per ciò stesso finale, dando così anche un senso escatologico a tutto il brano sull’eunuchia. Ci si può domandare ancora se la dottrina cattolica della superiorità della verginità sul matrimonio si possa ricavare da queste frasi. Stimati autori ritengono di sì, cogliendo nel contesto stesso e nella contrapposizione: non tutti possono capire queste parole, ma solo coloro ai quali è stato concesso un’evidente, seppur non esplicita, affermazione della dottrina della Chiesa cattolica. C’è poi un’altra domanda, cui possiamo solo accennare: gli eunuchi per il regno dei cieli, erano scelti solo tra i celibi, o anche tra sposati che, in seguito alla chiamata, interrompevano di mutuo accordo, la loro convivenza matrimoniale? È ovvio che c’erano dei celibi, ma sembra con certezza che anche degli sposati facessero parte della categoria degli eunuchi, almeno durante il periodo della vita di Gesù (1). Se così non fosse, che senso avrebbero le frasi di Le 14, 26 e 18, 29? Leggiamo in quest’ultima: In verità vi dico, non c’è nessuno che abbia lasciato casa, o moglie, o fratelli…, che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà. Evidentemente, per Luca, la moglie è vera moglie e non la fidanzata, come pensano alcuni. Possiamo, dunque, concludere che questa eunuchia di sposati sia stata reale almeno nel periodo della predicazione di Gesù, e forse, in certi casi, tra le primitive comunità cristiane. La Prima lettera ai corinti Per avere un’idea del significato del capitolo 7 della Prima lettera ai corinti, mi sembra necessario premettere tre brevi paragrafi: il primo sulla città di Corinto e il suo clima culturale e morale, il secondo sulla nascita della comunità cristiana a Corinto, il terzo sulle motivazioni che Paolo può aver avuto per scrivere la lettera. 1. La città di Corinto. Per conoscere Corinto alcuni decenni dopo l’era cristiana, bisogna rifarsi a un avvenimento precedente, accaduto nel 146 a.C. Fu l’anno nel quale Corinto, guerreggiando con Roma, perse le ultime vestigia della sua indipendenza e, pur aprendo le porte ai vincitori, fu ugualmente devastata e saccheggiata come solo le legioni di L. Mummio sapevano fare. Della gloriosa città greca non restavano che pochi resti. Per alcuni, però, il vero motivo per il quale Corinto fu distrutta è da cercarsi nella volontà di sopprimere una rivale commerciale che impediva al porto di Delo e ai negozianti italici di accaparrarsi il traffico dell’Egeo (2). Nel 44 a.C., oltre un secolo dopo, Giulio Cesare decise di fare ricostruire la città col nome di Colonia Laus Julia Corinthus. Si sa che i primi a stabilirvisi furono i veterani di Farsalo, coloni italiani e greci, di gusti rozzi. Un poeta del tempo, Crinagora (3), li definisce: una accozzaglia di schiavi mal venduti. Questo ci indica che il grosso della popolazione era formato da schiavi. Nel 27 a.C., Augusto, avendo costituito l’Acaia, provincia senatoriale distinta, comprendente – eccetto Atene – quasi l’intera Grecia, ne fece Corinto capitale. La città fu così sede di un proconsole. È interessante, per noi, perché sarà un proconsole a giudicare Paolo. Vi fu, allora, un Campidoglio con gli dèi capitolini; si ebbe un’arena per i giochi romani, così alieni dal raffinato gusto dei greci. La posizione politica seguiva quella geografica. Corinto era infatti a cavallo tra il Mar Ionio e il Mar Egeo. In pratica, dominava il traffico tra l’Asia e l’Europa. Aveva per questo due porti, il porto Lecheo a due chilometri e mezzo dalla città, che dava asilo ai battelli e ai carichi provenienti dall’Italia, dalla Gallia, dall’attuale Europa; l’altro porto, Cenere, era sul Mar Egeo, a dodici chilometri da Corinto, e serviva le navi che venivano dai porti asiatici e viceversa. Il transito avveniva così. Arrivate a Lecheo o, viceversa, a Cenere, le navi di maggior mole scaricavano la merce, che con carri veniva fatta passare a Cenere o a Lecheo, ove, reimbarcata, riprendeva il cammino. Ma l’ingegno dei Corinti aveva escogitato una ferrovia di legno, il diolcos, dove il naviglio leggero, nel passaggio da un mare all’altro, veniva fatto salire e scivolare su rulli. La prosperità economica non poteva mancare, tanto che aumentò il numero degli abitanti fino a circa mezzo milione. Si erano aggiunti emigrati provenienti dall’Egitto, dall’Asia Minore, numerosi ebrei attratti dagli affari, e schiavi, schiavi, schiavi! Si calcola che due terzi della popolazione era formata da essi. Come divinità, si trovava di tutto: le divinità romane, le greche, le asiatiche: Poseidone, Esculapio, Iside, Serapide, Cibele la madre degli dèi; soprattutto, però, la città era dominata sull’Acrocorinto – collina che sovrastava con i suoi 575 metri di altezza – dal tempio di Afrodite, la dea dell’amore. Si calcola che, anche ai tempi di Paolo, servissero tale oscena divinità più di mille ierodule, serventi cioè sacre, che avevano il compito di danzare e di vendersi in onore della dea. L’atmosfera di Corinto era così malfamata che dire a una fanciulla: ragazza di Corinto era un insulto, cosi come: vivere come i corinti, equivaleva a vivere scostumatamente . La ricchezza, il lusso, l’oscenità e anche il tenore di vita, erano noti a tutti, tanto che Grazio (Epistola I, 17, 36) afferma che: Non ogni uomo può andare a Corinto. Al tempo stesso uno scrittore antico, Aristide, la elogia per le sue scuole, i suoi ginnasi, i suoi filosofi, i suoi letterati, che si trovano in ogni angolo di strada, anche se, continuava: Nessuna città, per attrarre gli uomini, possiede un prestigio più grande di quello che è dato dal fatto di essere la città di Afrodite (4). Ebbene, fu proprio a questa città che Paolo indirizzò le pagine più alte da lui scritte sulla verginità e il celibato (5). 2. L’evangelizzazione di Corinto. Corinto fu l’ultima sosta del secondo viaggio apostolico di Paolo, che vi giunse dopo la faticosa e dolorosa esperienza di Atene. Là, Paolo aveva dato tutto sé stesso svolgendo un discorso filosofico – cristiano all’Areopago ma, come dicono gli Atti (17, 32-34): Quando sentirono parlare di risurrezione dai morti alcuni lo deridevano, altri dissero: Ti sentiremo su questo un’altra volta. Così Paolo usci da quella riunione.Ma alcuni aderirono a lui e divennero credenti, fra questi anche Dionigi membro dell’Areopago, una donna di nome Damaris e altri con loro. Senza essere stato cacciato questa volta dalla città, parti alla volta di Corinto, da solo, forse con gli indirizzi dei coniugi giudeo-cristiani Aquila e Priscilla. Lo spirito col quale venne a Corinto ce lo dice nella Prima lettera ai corinti: Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione (1 Cor 2, 3). Il primo periodo della vita di Paolo a Corinto fu assorbito dall’impegno di predicare il sabato nella sinagoga, mentre per il resto del tempo lavorava ed abitava presso Aquila e Priscilla, poiché dicono gli Atti degli Apostoli (18, 3); Erano del medesimo mestiere, cioè fabbricanti di tende e coperte. Con le sue mani Paolo si mantenne fino all’arrivo di Sila e Timoteo, che giunsero dalla Macedonia portando aiuti in denaro. Ma i giudei della sinagoga gli si opposero. Ma poiché essi gli si opponevano e bestemmiavano, scuotendosi le vesti, disse: Il vostro sangue ricada sul vostro capo: io sono innocente; da ora in poi io andrò dai pagani (At 18, 6). Paolo si trasferì accanto alla sinagoga, in una casa di un tale chiamato Tizio Giusto, di origine latina, che probabilmente si era fatto cristiano, poiché gli Atti dicono di lui: che onorava Dio (18, 7). Ma anche giudei eminenti si convertirono, come testimonia il racconto di At 18, 8: Crispo, capo della sinagoga, credette nel Signore insieme a tutta la sua famiglia. Mentre Paolo stava così svolgendo il suo apostolato presso i pagani, probabilmente con molta apprensione, visto l’ambiente lussurioso nel quale essi vivevano o almeno dovevano vivere, ebbe una conferma dal ciclo: E una notte in visione il Signore disse a Paolo: Non aver paura, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male, poiché io ho un popolo numeroso in questa città. Così Paolo si fermò un anno e mezzo, insegnando fra loro la parola di Dio (At 18, 9-11). Si è in dubbio se Paolo sia rimasto a Corinto 18 mesi o circa 24, poiché, in At 18, 18 si aggiunge: Paolo si trattenne ancora parecchi giorni; quindi, probabilmente per un totale di due anni, dall’anno 50 all’anno 52 o dall’anno 51 all’anno 53. La data ci viene certificata da quella del proconsolato di Gallione, che è certa; quest’ultimo, infatti, fu interessato dai giudei, o forse non solo da loro, a giudicare Paolo. Così si comportò Gallione: Mentre era proconsole dell’Acaia Gallione, i giudei insorsero in massa contro Paolo e lo condussero al tribunale dicendo: Costui persuade la gente a rendere un culto a Dio in modo contrario alla legge. Paolo stava per rispondere, ma Gallione disse ai giudei: Se si trattasse di un delitto o di un’azione malvagia, o giudei, io vi ascolterei, come di ragione. Ma se sono questioni di parole o di nomi o della vostra legge, vedetevela voi; io non voglio essere giudice di queste faccende. E li fece cacciare dal tribunale (At 18, 1216). Paolo continuò ancora un po’ il suo miracoloso apostolato tra persone di razze diverse e di costumi tanto difficili (6). Finito il suo soggiorno, prese congedo e s’imbarcò diretto in Siria, in compagnia di Priscilla e Aquila (At 18, 18). Era nata a Corinto la più grande comunità che Paolo avesse suscitato nei suoi viaggi. 3. Occasione della lettera. Durante il suo terzo viaggio, Paolo si fermò a lungo ad Efeso (7), nel periodo cioè dal 54 al 57, periodo che gli Atti descrivono nel capitolo 19 in maniera meravigliosa. In tutto quel tempo, Paolo seguiva da lontano, attraverso le notizie, la comunità di Corinto. A un certo punto gli devono essere giunti degli allarmi, poiché l’Apostolo si decise a scrivere una prima lettera, che è andata perduta (8). Gli effetti della lettera non dovettero essere stati molto efficaci tanto che, da quel che ne sappiamo, da almeno quattro fonti giunsero nuove notizie a Paolo da Corinto: da Apollo, che, svolto il suo apostolato nella città, ritornato ad Efeso, aveva certamente ragguagliato Paolo; da quelli della casa di Cloe (9), (non sappiamo chi sia questa Cloe, né se sia di Corinto o di Efeso; appare però persona di rilievo che, coi familiari cristiani, ben conosce l’ambiente di Corinto); la terza fonte d’informazione furono i corinti stessi in uno scritto inviato a Paolo (10), scritto nel quale esponevano molti quesiti interessanti, a giudicare gli argomenti esaminati da Paolo nella sua lettera. Si può stabilire che i corinti chiedevano delucidazioni all’Apostolo sulla libertà dei cristiani, sugli schiavi, sul matrimonio e la verginità, sui carismi, ecc.; infine, Paolo ricevette una delegazione formata da Stefana, da Fortunato e da Acaico, i quali gli portarono buone nuove e, insieme ad esse, probabilmente nuove domande, forse sulla risurrezione dei morti. Si ha l’impressione, infatti, che essi giunsero solo quando Paolo stava per terminare la sua lettera di risposta, giacché il capitolo 16, 17- 18 della Prima ai corinti (Io mi rallegro della visita di Stefana, di Fortunato e di Acaico, i quali hanno supplito alla vostra assenza; essi hanno allietato il mio spirito e allieteranno anche il vostro. Sappiate apprezzare siffatte persone) sembra un post scriptum. Queste sono le notizie fondamentali che possiamo cogliere dai documenti tramandatici sulle motivazioni a causa delle quali Paolo scrisse la sua seconda lettera, che poi divenne la prima, accolta nel canone della Chiesa. Si può datare entro l’estate del 57. Due avvertenze per concludere: non accenno alla autenticità e integrità del capitolo 7 della Prima lettera ai corinti poiché non vi è una vera contestazione da parte degli studiosi; seguirò la traduzione della Cei. Nel contempo terrò conto di eventuali altre traduzioni e del testo greco. Esaminerò i vv. 1, 2, 7, 8, 9, 25-40. Pasquale Foresi (continua) 1) Cf. Proietti, op. cit., p. 44; e G. Theisen, Wandelmdikalismus, in ZThK, 70 [1973], pp. 245-271; 2) E.B. Allo, Saint Paul, Première épitre aux corinthiens, Paris 1956, p. 10; 3) Antologia Palatina, IX, p. 284; 4) A. Boulanger, Aelius Aristide, Paris 1923, p. 347; 5) G. Huby, San Paolo, 1ª epistola ai Corinti, vers. it., Roma 1963, p. 8; 6) O non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi; ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio! (1 Cor 6, 9-11); 7) 1 Cor 16, 8; 8) 1 Cor 5, 9-13; 9) 1 Cor 1, 11; 10) Quanto poi alle cose di cui mi avete scritto… (1 Cor 7, 1).

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons