Nella chiesa di San Giorgio si costruivano missili
Daesh e le croci. L’ho scritto già ieri: fa impressione l’accanimento delle milizie del cosiddetto “califfato islamico” contro i simboli della cristianità, le croci in particolare, ma anche tutte quelle rappresentazioni antropomorfiche di Santi, Profeti e Madonne che l’Islam non ha la tradizione di raffigurare. A Qaraqosh non posso che seguire il filo rosso dei luoghi di culto cristiani contro cui i membri del Daesh, di cui l’ignoranza appare addirittura imbarazzante per chi è vero musulmano, si sono accaniti. Ne esce un reportage forse un po’ apocalittico, ma come cronista non posso che dar conto di quel che ho visto. Le interpretazioni vanno fatte, ma più tardi. Esprimendo la mia gratitudine ad abuna Georges Jahola, senza il quale ben poco avrei potuto vedere a Qaraqosh.
Mar Zena. Arriviamo con i 25 fotografi che vogliono testimoniare i danni subiti dalla città-martire dei cristiani della Piana di Ninive, sulla strada principale di Qaraqosh, proprio dinanzi al portone di Mar Zena, un santo venerato nella chiesa siro-cattolica. È il primo edificio nel quale entro. Vengo colpito dai calcinacci, dalle immagini sacre profanate, crivellate, stracciate, squarciate, dai muri misurabili dai fori delle raffiche di mitra, dai controsoffitti crollati al suolo, dai banchi bruciati, dai vetri infranti, dalle bestiali sfuriate di uomini che sicuramente erano drogati o ubriachi. La cupola si regge ancora per miracolo, perché appare recisa alla sua base salvo per un breve tratto di muro. Il cielo appare, e appare bello.
Immacolata. È la più grande chiesa di Qaraqosh, che ha radici che risalgono al XII secolo, con scritte in siriaco sul vecchio fonte battesimale nella chiesa inferiore. Il campanile sta in piedi per miracolo. Il campanile è stato preso di mira, ma sta ancora su, mi sembra di vedere le omologhe torri campanarie del recente terremoto in Italia centrale, miracoli della statica. La sua croce, così come quella della cupola, sono state divelte, ma i primi cristiani entrati nella città dopo la liberazione (che non è ancora la libertà) ne hanno issata una sulla cupola danneggiata. La grande navata centrale è bruciata, pare l’antro di una caverna. Sull’altare principale delle immagini sacre sono state deposte assieme a lumini e candele. Tre soldati delle milizie cristiane, mitra a tracolla, si avvicinano e accendono i loro ceri. Hanno le lacrime agli occhi. Usciamo nel grande cortile. Il lato orientale è stato usato come tiro a segno. Le colonne sono scarnificate. Come avevo visto a Srebrenica, nelle case dei musulmani saccheggiate dai cristiani serbi: la guerra imbestialisce. Punto e basta. Nella chiesa antica scorgo un Cristo più grande che regge quel che resta di un Cristo più piccolo, che a sua volta sostiene un Sacro Cuore. Catena di santità misericordiosa.
San Giacomo martire. Non è l’apostolo, ma un santo della Chiesa siriaca. Salvo il campanile, la chiesa appare la meno danneggiata della città. Persino la croce della cupola i miliziani del Daesh non sono riusciti a divellerla completamente. Sta, seppur ripiegata su sé stessa, ma c’è ancora. E sulla parete esterna una grande croce è stata sì divelta, ma il segno della sua presenza è rimasto come un’ombra nell’intonaco strappato. La croce resiste, puoi farle quello che vuoi, ma resta, perché il dolore è la costante della nostra fede. In compenso un redentore issato sul tetto è stato decapitato, spuntano solo i tondini di ferro che ne costituivano l’anima. Il Daesh ha invertito il senso del jihad: pensano che il piccolo jihad sia il grande. Che la lotta contro gli infedeli sia più importante della lotta contro il proprio egoismo.
San Giovanni Battista. Mentre passano due aerei e più a Nord, a Mosul, si combatte duro, come testimoniano i boati che si succedono a ritmo incalzante, entriamo nella chiesa del Battista, dopo aver consolato il dolore di due uomini che hanno perduto la casa, ma non la fede (forse), ma non la carità (sicuramente), ma non la speranza (c’è qualche dubbio). La chiesa non è stata distrutta semplicemente perché il fuoco che i combattenti del Daesh avevano programmato accatastando tutti i banchi della chiesa sotto la cupola principale non si è rivelato sufficiente, o forse l’avanzamento delle forze irachene ha impedito loro di compiere l’ennesimo misfatto. Nel cortile una copia, peraltro dozzinale, della Pietà michelangiolesca conservata a San Pietro ha fatto la stessa fine. Monumento alla stupidità umana che s’accanisce contro le cose, e non contro i sentimenti malvagi dell’uomo.
San Giorgio. È la chiesa ortodossa della città. Era sulla linea del fronte, e lo si capisce. Il campanile, altissimo, resta in piedi come sfibrato e denudato, peraltro sfidato ad est dal minareto che certi musulmani avevano voluto edificare, pur essendo un numero infimo nella città, un atto gratuito per irridere i cristiani, come a Nazareth, come a Beirut, come altrove. La piazza circolare porta i segni indelebili del califfato. I bombardamenti che hanno ridotto a polvere, o poco più, grossi edifici di cemento armato, pare ancora di sentirli. Accanto alla nuova basilica, lì accanto la chiesa più antica della città conserva un affresco del XII secolo che è stato risparmiato, ignoranza crassa del Daesh. Nei locali della parrocchia era stata installata una fabbrica di armi: venivano mischiati composti chimici per missili e proiettili vari. Ci sono ancora misurini, bacinelle, bossoli, bilance. Mi porto a casa una vecchia radiografia bucata ad arte per creare la scritta “Isis”, che veniva poi dipinta a spray sulle armi. Una chiesa ridotta a fabbrica di armi, di morte, la peggiore profanazione che si possa immaginare (ma per compensazione assieme alla radiografia mi porto a casa una statuetta di San Giorgio, il sacro e il profano).
Il seminario. Terminiamo la giornata, prima di tornare ad Erbil, sul sagrato del seminario, distrutto anch’esso, consumando il pranzo generoso e appetitoso preparato da una mamma benedetta della comunità siro-cattolica. Anche qui le profanazioni non hanno risparmiato la chiesa sotterranea; ma c’era poco da distruggere. Tre croci sono state amputate, chissà, forse i miliziani del Daesh non sapevano che così facendo avrebbero mostrato, direi teologicamente, quanto la morte di Gesù sulla croce continui e continui ancora a riscattare gli umani, anche paradossalmente quegli stessi profanatori. Gesù è morto per Daesh, sì, proprio così. E penso che il “santo” è talmente superiore che il “sacro” (riti, chiese, gerarchie varie) gli è secondo. Sgabello, non trono. Il santo è solo Gesù sulla croce, che continua a morire, anche nei “suoi” cristiani, quelli che lo testimoniano. Come i miei amici fotografi, coi quali consumiamo il pasto in semplicità e sì, anche allegria. Life goes on, la vita continua. Perché l’amore è più forte della morte e delle paure. Anche di quelle degli abitanti di Qaraqosh che stentano a rientrare a casa loro.