Nel teatro del Wessex
Recenti edizioni del meglio dei suoi racconti ci fanno conoscere una produzione tutt’altro che secondaria dello scrittore e poeta inglese Thomas Hardy, famoso soprattutto per Via dalla pazza folla e Tess dei d’Uberville, solo per citare alcuni dei suoi capolavori trasposti anche sul grande schermo. In Personaggi di vecchio stampo (Marsilio) e I tre sconosciuti e altri racconti (Garzanti), ritroviamo – espresse in maniera più concisa rispetto alla prosa talvolta lenta e maestosa dei romanzi – le doti che ci hanno fatto amare Hardy, al di là delle atmosfere cupe e tragiche che caratterizzano in modo speciale le ultime opere. Anche in queste storie brevi, infatti, egli si rivela magistrale nel dar vita a luoghi, personaggi e situazioni che il lettore non saprà dimenticare. I luoghi: quelli della campagna inglese da lui prediletta rispetto alla industrializzata vita cittadina, tanto da averli elevati quasi a mito, come indicherebbe la regione fittizia del Wessex dietro cui cela la sua contea natia del Dorset. Ma non per quest’ambientazione rurale dobbiamo aspettarci l’idillio (se non, come felice eccezione, nel divertente Sotto l’albero del verde bosco). La natura, personaggio importante nell’intera opera di Hardy, è indifferente all’uomo, il quale ne trae solo una consolazione transitoria. È lo scenario fuori dal tempo del quale egli si serve per rappresentare l’uomo di sempre, con le sue virtù e le sue debolezze. Un uomo-burattino, secondo i dettami dell’allora imperante positivismo, che vive le sue esperienze sospinto dal caso, condannato all’infelicità da cieche passioni attraverso situazioni spesso assurde e imprevedibili: una evidente reazione dello scrittore al beato, seppur ipocrita, mondo vittoriano. Ed è qui, soprattutto, che la fantasia di Hardy si accende, venata di quell’ironia che è anche un modo per esprimere il proprio distacco, l’impossibilità di penetrare il destino che regola le vicende umane. Da agnostico qual è, egli si ferma onestamente davanti a quella porta per lui chiusa, proponendosi soltanto di illustrare il contrasto tra la vita ideale desiderata da un uomo e quella reale e squallida che egli era destinato ad avere. Se non è possibile spiegare, sembra suggerire Hardy, ci si deve limitare a rappresentare o ad assistere come ad uno spettacolo, perché tale è l’esistenza umana, sempre ricca, varia, imprevedibile. Il suo illustrare soltanto, però, non fa affatto di lui un verista alla Zola: l’arte essendo per lui un mutamento delle proporzioni e dell’ordine delle cose, lo scrittore non può limitarsi a riprodurre la realtà, ma di questa deve cogliere quel quid di insolito e bizzarro che merita di essere messo in luce. Una spia, del resto, per intravedere l’anelito verso una qualche trascendenza ci è fornita dai temi biblici del bene, del male, della tentazione, ben presenti nella sua opera. Manca però ogni spiraglio di speranza, e allo scrittore non resta altro che seguire con malinconica e affettuosa partecipazione i suoi personaggi, impotenti e bloccati in storie prestabilite. Tra questi le figure femminili hanno uno spazio importante. E alcune – sempre in questi racconti – sono davvero indimenticabili, degne sorelle di altre sue eroine tragiche come Tess. Penso alla vedova senza istruzione alla quale il figlio – un giovane tutto proiettato verso la carriera ecclesiastica – vieta egoisticamente quelle nuove nozze che potrebbero allietarne la grigia esistenza. E a proposito di ecc l e s i a s t i c i , Hardy non risparmia i suoi strali, ma con gran stile, nei riguardi della Chiesa istituzionale del suo tempo, per lui tutt’altro che espressione di vangelo ed emblema invece di arrivismo. Né manca, qui come altrove, la sua denuncia del vincolo matrimoniale come una prigione che soffoca i veri sentimenti e induce all’ipocrisia. Un sentire, il suo, che sembra tuttavia smentito dalle poesie dedicate alla defunta prima moglie Emma, poesie d’amore tra le più belle della letteratura inglese. Nella sua profonda solitudine intellettuale che ne fa un autore sostanzialmente eclettico, Hardy è tra i narratori di epoca vittoriana senz’altro più moderno di Dickens per l’inquietudine e il pessimismo di cui ha disseminato la sua opera: pessimismo al quale non è estranea l’influenza dell’opera del filosofo Schopenhauer. La sua è una tecnica narrativa innovativa, che richiama quella cinematografica: sa far vedere quello che descrive, come da una cinepresa nascosta; riduce al minimo monologhi e dialoghi per presentare il materiale in termini visivi; fa largo uso di panoramiche, dissolvenze, zoom e primi piani. Ha inoltre il dono, pur trattando in genere personaggi semplici e rustici, di sottrarre alla banalità anche il più trito quotidiano. Una capacità piuttosto unica di sedurre il lettore, un po’ come in certi suoi racconti di musici che con i loro strumenti riescono a soggiogare gli animi. THOMAS HARDY nasce da umile famiglia a Upper-Bockhampton nel 1840. Dopo aver compiuto a Londra studi di architettura, si stabilisce a Dorchester e si dedica interamente alla letteratura. Dopo un primo romanzo nello stile di Wilkie Collins, Rimedi disperati, trova la sua vena narrativa più autentica con Sotto l’albero del verde bosco (1872), caratterizzato da una accattivante ironia e dalla profonda comprensione dei ritmi elementari che regolano la vita e il lavoro dei campi: temi ripresi nei romanzi successivi, dove tuttavia prevale via via una visione più cupa. Fra i più notevoli: Via dalla pazza folla, Il ritorno del nativo, Il sindaco di Casterbridge, Gli abitanti del bosco, Tess dei d’Uberville, Jude l’oscuro. L’insuccesso di quest’ultimo romanzo – senz’altro la sua opera più intrisa di pessimismo e di più accesa denuncia sociale – convince Hardy ad abbandonare la prosa per dedicarsi alla poesia, suo primo amore. Oltre al poema drammatico I dinasti, ispirato all’epopea napoleonica, produce tre raccolte sempre incentrate sul suo mondo del Wessex e in cui esplora le più diverse forme di poesia. Muore a Max-Gate nel 1928 e viene sepolto nell’abbazia di Westminster.