Nel rapportarsi alla morte
In piena età dell’Illuminismo – e si sa quanto questo abbia contribuito, purtroppo, a fare dell’uomo un animale mortale e basta – il grande fondatore dei Passionisti san Paolo della Croce scrisse a un confratello un po’ in crisi ciò che aveva ascoltato dalle innocenti riflessioni di un pover’uomo, che diceva in dialetto di pensare in coppa alla morte: Ecco, pensa in coppa alla morte, e aggiungeva mistica; ma a noi per ora basta quella senza aggettivi, per dire subito che la nostra società, buona e cattiva erede dell’Illuminismo, la morte cerca di nasconderla (spesso, non sempre, per fortuna) sotto il tappeto come la polvere, oppure di spettacolarizzarla, che è un modo anche peggiore per dimenticarla. E fa di molto peggio, con la manipolazione genetica distruttiva in servizio, dice, della vita (che vita?); fino (non in Italia, per fortuna) all’orrenda distruzione di embrioni umani geneticamente contaminati con Dna animale, crimine che grida giustizia davanti a Dio. La riflessione sulla morte è oggi tra le più tremendamente decisive. Rimango almeno interiormente a bocca aperta ogni volta che ripenso a quelle che Simone Weil definiva intuizioni precristiane, ovvero a quel crescente aggancio che le culture del mondo antico – ebraica, greca, latina – chiedevano e offrivano alla sopravveniente storia e rivelazione cristiana. È un capitolo vastissimo di profezie, presagi, assottigliamenti delle opacità culturali fino alla trasparenza, premesse che attendevano solo le conclusioni, invocazioni implicite o esplicite di pienezza, di compimento, e così via. Me ne viene in mente una, tra mille, del filosofo Seneca, contemporaneo dell’apostolo Paolo (al quale non per caso la tradizione attribuisce uno scambio epistolare con lo stoico romano); il quale Seneca, costretto poi al suicidio da Nerone, nelle sue Lettere a Lucilio proprio sulla morte spesso medita e scrive pagine altissime, a un certo punto dicendo che essa è una nuova nascita: In alium maturescimus partum, ovvero, interpretando, noi viviamo in questa vita mortale l’esistenza di un feto che matura per un altro parto, una nascita definitiva. Parlare della morte è sempre un po’ ripugnante perché negli altri e in noi essa è un’esperienza co- sì grande e radicale che, o ci cambia la vita, o il parlarne diventa una chiacchiera irresponsabile. A trentacinque anni perdetti suicida l’amico di gran lunga più importante della mia adolescenza. Dotato di intelligenza e di sensibilità molto superiori, segnato da un destino tragico di imperfetta crescita psicologica dovuto a molte cause soprattutto familiari, era andato negli ultimi tempi peggiorando in modo molto preoccupante, con un primo tentativo dimostrativo di suicidio, seguito da frasi del tipo: Gli amici dovrebbero essere contenti se uno trova pace. Io non riuscivo ad aiutarlo. Infine il tentativo serio e compiuto. Solo oggi in questa pagina ne parlo dopo averlo fatto in precedenza unicamente in una piccola poesia. Prego sempre per lui vivo e ogni ricordo mi sembrerebbe un insultante congedo. I grandi hanno avuto a volte l’intuizione vitale dell’unità profonda di vita e morte, come Georges Bernanos che scriveva: Non c’è un regno dei vivi e un regno dei morti, c’è solo il regno di Dio, e vivi o morti noi ci siamo dentro. E quando morì tragicamente un giovane, e un suo amico chiese a Chiara Lubich, che li conosceva bene entrambi, come avrebbe potuto fare per mantenere con lui un vero rapporto ora che egli era lassù e lui quaggiù, Chiara gli rispose: Non c’è lassù e quaggiù. L’eternità è già cominciata, e noi dobbiamo essere coerenti sentendoci già partecipi della vita del Paradiso. Ma il non credente dirà: questo non è per me. Ed è qui che il discorso, non banale, sulla morte diventa esigente e cruciale, per lui come per gli altri, perché la morte interpella tutti, e non solo tutticiascuno da solo, ma ciascuno-tutti insieme. Facciamo sempre parte di un insieme, con simpatia e amore o con freddezza ed estraneità, con attrazione o ripulsa e comunque con l’impossibilità di cancellare la comune appartenenza: Quando sei nato – dice il titolo intelligente di un film – non puoi più nasconderti. Diciamo di più: la morte, al di là del credere o non credere, è la chiave stessa della vita, perché non si improvvisa, e si muore, anche quando tutto sembra precipitare, come si è vissuto. Allora, ragionando con rigore, la vita e la morte non risultano contrapposte e nemiche, ma convergenti, se mettiamo da parte le ideologie, in qualcosa che le supera, e che tanto è certo quanto è difficile definirlo, afferrarlo, senza sminuirlo. A morte ‘o ssai ched’è? È una livella. Il verso immortale di Totò è tale perché, come tutte le grandi espressioni umane, contiene e anzi irradia una pluralità di significati che lo moltiplica indefinitamente. Infatti non significa solo che essa è un’uguagliatrice di differenze sociali, umane, di età, di epoca, ecc., ma che azzera pretese e ambizioni, illusioni e incompiutezze; e che veramente ottiene una sanatrice parità tra gli esseri umani, ben oltre non solo le povere sepolture e i sontuosi monumenti funebri, ma anche le appartenenze culturali e le fedi stesse. La morte, vorrei dire senza timore d’essere frainteso, ci contiene ci supera ci unisce. Io non amo molto i crocifissi della storia dell’arte: anche quelli bellissimi li sento lontani (e ce ne sono di meravigliosi) perché non contengono tutta la morte, la morte di tutti noi. Ci sono pochissime eccezioni, per me, e tra queste una che ogni volta mi prende e mi assume, appunto, nella sua non individuale morte. È il Crocifisso dell’altare di Isenheim (1512 c.), dipinto da uno dei più grandi di tutti i tempi, Mathis Neithart Gothart, più conosciuto come Grünewald. Tra le cose assolutamente uniche di questo dipinto ci sono le pustole o bubboni della peste che allora mieteva vittime, e quelle spine nella carne di tutto il corpo, che però sembrano uscire da esso più che trapassarlo dall’esterno. Su ciò Giovanni Testori ha scritto pagine mirabili, da cui traggo un passaggio: Non era forse scritto da sempre che Cristo sarebbe stato coronato di spine? Ma questo sempre è, nello scandalo di Grünewald, talmente reale che la corona si sarebbe sviluppata da sé per ferirlo e torturarlo, anche se attorno a lui non ci fosse stato nessun carnefice, contenendo così l’enorme, povero strazio di tutti i servi e di tutti i vinti che sempre furono e saranno infangati, assassinati e distrutti. E non siamo noi tutti servi e vinti bisognosi di riscatto, anche da noi stessi? Chi non crede di es- serlo alzi la mano, si vedrà che lo è ancor più degli altri. La più vera e non ideologica verità della morte è che contiene tutte le nostre, come un’enorme sconfitta contiene la pace che dalle sue rovine promana. Come una giustizia infinitamente superiore alle uguaglianze e alle disuguaglianze. È qui, a conclusione, devo partecipare una mia persuasione molto intima ma anche molto concreta. Non si tratta di un’operazione dottrinale, ma di un sentire l’aldilà, che nel passare degli anni si rafforza. L’aldilà mi sembra (lo sento) sempre meglio non un’altra realtà o un’alternativa all’aldiqua, una scommessa o la speranza di un terno al Lotto finale. Invece qualcosa che cresce profondo nell’aldiqua, lo adempie, lo realizza, lo esalta, lo perfeziona.Nell’aldilà – di cui la morte è la porta – non meno, ma più cieli e stelle e vita e realizzazioni di desideri (Ivi è compiuta, matura e intera/ Ciascuna distanza, dice, sublime, Dante); persone – noi – più vere e definitive perché più e ultimamente raffinate, realizzate. Tutto più, non meno; come l’affresco compiuto è più della sinopia che solo lo abbozzava in profili poi da riempire. Vorrei, a conclusione di queste quattro riflessioni sui guasti dell’ideologia, ricordare che in Italia, come altrove, a fronte di un popolo che certo ha i suoi limiti ma anche le sue grandi risorse, e che è minacciato e inquinato e ferito ma non mortalmente travolto dagli stili di vita ideologici, tra immoralisti e nichilisti, c’è una misera ma potente minoranza di intellettuali che hanno occupato abusivamente i mass media pubblici come il cuculo occupa il nido altrui, da dove spargono la loro cenere nel loro vuoto divorante. Sta a noi smettere di ascoltare le sirene mortifere e di farci trascinare nel fosso dalle guide cieche.