Nel quartiere Borro microproduttrici crescono

Dalla necessità, la ricerca di una soluzione. Insieme campagna e città, tradizione e commercio. Il progetto Quartiere Solidale: formazione professionale e molto di più.
Montevideo

Il nome Borro, qui a Montevideo, fa storcere il naso. Come minimo, provoca diffidenza e pregiudizi. Chi cerca lavoro e viene da quel quartiere lo sa: appena lo menziona, vede spesso spegnersi le sue speranze. Purtroppo Borro è oggi sinonimo di delinquenza, ignoranza, droga, e non proprio di laboriosità.

 

Per questo alcune cooperative edilizie, associazioni e ONG stanno cercando di sfatare questa immagine, ricorrendo alla storia del sobborgo (nato da alacri, piccoli produttori ortofrutticoli, molti dei quali di origini italiane) e alla promozione delle iniziative di sviluppo del quartiere. Una di queste è il progetto “Barrio Solidario” (quartiere solidale).

 

In seguito alla visita di una delegazione di Azione Mondo Unito (la Ong dei Focolari) a Nueva Vida, l’opera sociale del movimento nel quartiere, Giovanni Avogadri, pedagogo livornese, ha cominciato a riflettere sul problema dell’inserimento lavorativo delle ragazze madri, popolazione numericamente rilevante nel quartiere. Il sogno era quello di promuovere un percorso formativo che sfociasse in una soluzione lavorativa sostenibile nel tempo.

 

C’erano peró vari problemi, tra cui dove lasciare i bambini piccoli (sempre più di uno per mamma) e soprattutto cosa produrre e per quale mercato.

Giovanni e i suoi amici avevano buoni contatti con agenti del commercio equo e solidale in Toscana, e sapevano che tra i prodotti con buona vendita c’erano i capi di abbigliamento in lana.

 

In Uruguay persone vincolate ai Focolari avevano dato vita al centro comunitario di formazione e cultura rurale “El Chajá”. Una delle iniziative di maggior successo del centro era stata la mobilizzazione di piú di duecento tessitrici artigianali sparse in tutto il paese, per salvare una professione in pericolo per via della grande produzione standardizzata e di bassa qualità (e prezzo…) di importazione.

 

Madri di famiglia che, nella tradizione del posto caratterizzata dall’allevamento di ovini, tessevano in casa per conto di cooperative o aziende capi in lana di eccellente fattura. Non era ancora morta del tutto la pratica di raccogliere erbe silvestri con le quali tingere organicamente la lana. Ma non c’era tempo da perdere.

 

Tutto il processo, dal lavaggio della lana alla filatura in rocche a pedale (un’operazione tutt’altro che facile: ci ho provato!), dalla tessitura con telaio o con due o quattro ferri, tutto insomma, era artigianale e naturalissimo.

Giovanni, insieme a Luis e Carolina di Nueva Vida e a Martín, del Chajá, fecero “due più due”, e ben presto nacque un progetto: mettere insieme campagna e città, competenza e necessità.

 

Si poteva provare ad avviare una piccola produzione di capi in lana artigianali e organici, di qualità, diretti al mercato del commercio equo o comunque socialmente responsabile della Toscana.

Gladys e Angelica, esperte tessitrici della campagna floridense, furono le docenti che, oltre alle diverse tecniche, potevano trasmettere la loro cultura del lavoro e la loro esperienza di lavoratrici-casalinghe con figli a carico.

Il progetto Barrio Solidario, finanziato dall’Unione Europea attraverso la Regione Toscana, e presentato dall’Agenzia per lo sviluppo dell’empolese Valdelsa, cominciò ad essere una realtà nell’autunno del 2007.

 

La prima attività fu il necessario recupero delle abilità di base (leggere, scrivere, fare conti elementari) perse da tempo, perché non esercitate. È il cosiddetto analfabetismo funzionale, assai diffuso.

Il corso ha permesso a una trentina di madri e giovani di entrambi i sessi di entrare nell’era informatica e di uscire dal guscio del quartiere, visitando e conoscendo dal di dentro istituzioni come l’INPS uruguayano e il Ministero del Lavoro, fondamentali per un lavoratore.

 

Dopo la festa di consegna dei diplomi di alfabetizzazione, è cominciata la formazione tecnica, nel moderno Centro di Sviluppo Economico Locale (Cedel) del quartiere, rifiorito anche grazie all’entusiasmo del progetto.

Le sfide certo non sono mancate. Varie alunne hanno abbandonato, anche se in proporzione molto minore dell’abituale, per un contesto dove vale solo l’oggi e la previsione e la costanza sono concetti totalmente sconosciuti.

 

Gabriela, per esempio, ha trovato un ostacolo nel marito, per il quale il corso rappresentava un’evasione dai suoi obblighi materni. Col tempo, anche grazie all’amicizia con una compagna, ha convinto il coniuge dell’utilità di quanto stava facendo, per lei e per la sua famiglia, anche per via dell’entrata economica che pian piano esso cominciava a produrre.

Gladis Silvera, una delle docenti, è molto soddisfatta delle sue alunne.

 

«Molte volte ho fatto loro disfare un capo completamente… m a non si scoraggiano, sanno che si impara in questo modo, per cui ci mettono entusiasmo. Ora dovranno anche imparare, e le loro famiglie con loro, a lavorare in casa. Spesso non è facile per un figlio o un marito capire che anche se siamo in casa stiamo lavorando, e imparare quindi ad aiutare in cucina, o con altri lavori. Il problema è che non sempre si può riservare una parte della casa per lavorare.

 

La produzione é ancora limitata, un centinaio di capi annuali, anche se più elaborati dei primi. Ma l’importante è che Gabriela – «Ho imparato un sacco di cose e ho scoperto gente eccezionale» –, Silvia – «Sono contenta di quello che sono riuscita a fare e spero di imparare molto di più» –, Raquel ed Elizabeth guadagnano qualcosa dalla loro produzione che è auto sostenibile e si proiettano con decisione nel futuro come una piccola impresa. Sperano che il prossimo anno sia «di molto lavoro», per «consolidare il gruppo e raggiungere gli obiettivi».

 

In conclusione, ventisei persone hanno recuperato, insieme all’alfabetizzazione, autostima, dignità e nuove fondamentali possibilità di inserzione sociale. Si è aperta una catena commerciale sostenibile tra produttori e consumatori socialmente responsabili, un nuovo modello produttivo che salva la tradizione contadina e valorizza ricchezze culturali e umane a rischio di estinzione. Cinque donne si sono trasformate in lavoratrici in grado di mantenere le loro famiglie, sono entrate nel mercato lavorativo ed hanno elevato il loro livello di vita. Modelli imitabili, perchè la cultura del lavoro paga più di quella dell’assistenzialismo. E non è che l’inizio.

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