Nel Lago di cigni “anziani”
Fabrizio Monteverde non teme il confronto con i classici del balletto romantico, specialista com’è nel rivisitare i titoli del grande repertorio accademico – ricordiamo Giulietta e Romeo, Cenerentola e Coppelia –, con una ricorrente chiave spesso grottesca, sensibile alle suggestioni letterarie e teatrali, con quel segno contemporaneo che indaga i risvolti psicoanalitici di favole antiche. Il suo Il lago dei cigni. Ovvero Il canto, creato per il Balletto di Roma (produzione del 2014), conserva, seppur sfoltita, la partitura di Čajkovskij. Il resto è invenzione, sia tematica che di scrittura coreografica, anche se rimane il plot tradizionale. Cioè quello di Odette e Odile, cigno bianco e cigno nero, e di Sigfried e Rothbart, il principe e il mago, qui maestro di ballo, in conflitto: una storia d’amore di un uomo innamorato di una donna, di un altro che li scruta, e di un’altra che osserva il loro amore tenero e malato.
L’innesto operato da Monteverde è prettamente teatrale. S’ispira, infatti, al cechoviano Canto del cigno per indagare il misterioso legame tra arte e vita, facendone un grottesco e malinconico “canto” con, sullo sfondo, il teatro con la sua immutabile umanità, le illusioni e le follie. Ispirandosi al racconto teatrale dell’attore anziano e malato che ripercorre i grandi ruoli shakespeariani della sua lunga carriera, il coreografo romano immagina una compagnia di anziani danzatori, anch’essi rimasti chiusi dentro un teatro, che provano ancora una volta l’unico balletto che hanno eseguito per tutta la vita, Il lago dei cigni, nell’illusione di vincere la battaglia contro l’inesorabilità del tempo che fugge.
Monteverde, sappiamo, è artista colto, e le suggestioni che attraversano il suo “Lago” comprendono anche, oltre ai video di ectoplasmi di cigni, l’arte visiva – in specie quella Povera con un riferimento solo estetico, e non concettuale, alla Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto –, e quella cinematografica – con il crollo della scena finale come nel felliniano Prova d’orchestra, ulteriore rovina del teatro e della musica –. Già in apertura tutto il palcoscenico è ingombro di abiti a terra dai quali emergono solo le braccia e le mani dei danzatori distesi che rifanno il collo e il becco dei cigni. Spostando quel cumulo di abiti e ricreando ora il cerchio del lago incantato, ora uno spartiacque tra uomini e donne, poi buttandoli in aria, infine accumulandoli a formare una montagna, i bravissimi interpreti prendono corpo con posture e movimenti che alternano velocità e lentezza, coralità e passi a due, e a tre (l’adagio del pas de deux è struggente).
Con indosso delle maschere da anziani, incurvati, polverosi, dalle chiome canute, e coi bellissimi costumi lisi da cigni spennacchiati, Monteverde dà vita, man mano, ad una sorta di sabba, energico nella gestualità, dove ritroviamo una certa atmosfera da “gioco al massacro” presente già nel suo Bolero che si rifaceva all’estenuante gara del film Non si uccidono così anche i cavalli?. Gli anziani personaggi, ritrovando vitalità, ricreano, a loro modo, i passi classici rifacendo, nel secondo atto, le danze tipiche spagnole, russe, napoletane, giocando sempre ad esibirsi fra loro e ripetendo vezzi e lazzi del loro mondo bizzarro, vanitoso, di fragile umanità. Il finale li vedrà sparire tutti dentro il cumulo di stracci dalla fessura a utero, tranne l’anziana Odette che, ferma di spalle, voltandosi svelerà tutta la sua giovinezza togliendosi la canuta parrucca.
“Il lago dei cigni. Ovvero Il canto”, coreografia e regia Fabrizio Monteverde, musiche P.I. Cajkovskij, costumi Santi Rinciari, light designer Emanuele De Maria, costumi Opificio della Moda e del Costume, maschere Crea FX effetti speciali, video Matteo Carratoni e Michele Innocente. A Roma, Teatro Quirino, dal 13 al 18/2/2018.