Nel giardino di Donna Olimpia
Trastevere, antico rione romano che non finisci mai di scoprire. Chi si sarebbe immaginato che, perlustrando la zona di Ripagrande, dove un tempo esisteva uno degli approdi sul fiume, sarei capitato in quello che fu forse il più famoso “giardino di delizie” della Roma seicentesca, immortalato in uno dei paesaggi di Gaspar van Wittel (il Vanvitelli) e descritto dalle guide del tempo come i “Bagni di Donna Olimpia”, la cognata di papa Innocenzo X popolarmente nota come persona avida di denaro e di potere?
L’inizio di tutto: per caso, in fondo alla viuzza Augusto Jandolo, scorgo una chiesetta dalla semplice facciata con timpano triangolare ingentilita, nella lunetta d’ingresso, da un rilievo della Madonna con Bambino tra due pini, dietro la quale spunta un campaniletto romanico a due piani con bifore, che è una vera miniatura. Incuriosito, mi avvicino al cancello per il quale si accede al cortile davanti al sacro edificio. Accanto ad esso, una targa: “Fondazione casa di riposo Santa Francesca Romana”. Entro. Purtroppo la chiesetta è inaccessibile da chissà quanto tempo. Ha invece il portone aperto l’adiacente palazzo ottocentesco: sull’architrave marmoreo una iscrizione in latino illustra trattarsi di un ospedale per malati cronici.
Supero l’andito d’ingresso senza che il custode nella guardiola s’interessi a me, e dopo pochi passi mi trovo di nuovo all’aperto, in un vastissimo rettangolo di verde con al centro una vasca circolare senz’acqua: il giardino – verrò a sapere – di Donna Olimpia Maildailchini-Pamphilj, ora irriconoscibile rispetto al parco di un tempo dall’elaborato disegno, allietato da giochi d’acqua, disseminato di sculture e ornato da una fontana disegnata addirittura dal Bernini.
Tutto sparito, venduto o disperso. Le rare essenze che ne facevano un luogo di delizie hanno ceduto il posto a più modesti agrumi, peschi, allori, nespoli, melograni, fichi, ciliegi, olivi… anche se non mancano diverse yucche, palme nane e alcune altissime washingtonie. E poi piante fiorite, tra cui oleandri e ortensie. Il giardino è circondato per tre lati da un edificio: due ali fiancheggiate da un porticato, quella mediana interrotta al centro da un loggiato neoclassico con frontoncino sormontato da una cupoletta ottagonale: il piano nobile, al quale dà accesso una scalea. Chiude il quarto lato un alto muro costeggiante il Lungotevere Ripa, la cui unica apertura è una porta ad arco munita di inferriate.
Dentro questo spazio inaspettato nel cuore di Roma tutto è quiete e silenzio. Qua e là, all’ombra degli alberi, alcuni anziani siedono in conversazione. Preso dal fascino decadente di un sito che non serba più traccia dei fasti di un tempo ed ha assunto invece un aspetto agreste, casalingo, forse più adatto agli ospiti attuali, continuo la mia visita.
Sotto uno dei porticati una tabella informa sulla storia di questo complesso, a partire dalla chiesetta, consacrata il 25 marzo 1090, sotto il pontificato di Urbano II, con il nome di Santa Maria “ad pineam”, ma ora nota come Santa Maria in Cappella. Chiusa più volte lungo i secoli perché fatiscente, e altrettante volte riaperta dopo i restauri, verso la fine del Trecento ebbe annesso un ospedale e a metà Cinquecento divenne sede della Confraternita dei barilai, sempre passando di mano in mano. Nel 1650 il papa Innocenzo X ne concesse il patronato a Donna Olimpia che, acquistando i terreni confinanti, vi realizzò il suo meraviglioso giardino con annesso casino-belvedere sul fiume. Gli ultimi proprietari, i principi Doria-Pamphilj, a metà Ottocento diedero alla chiesetta l’aspetto attuale e ripristinarono, ampliandolo, il secolare ospedale, divenuto poi ospizio per la cura delle malattie croniche e, dal 1971, casa di riposo intitolata alla santa benefattrice dei trasteverini più indigenti e amorevole infermiera presso il Santissimo Salvatore, l’ospedale fondato dal suocero Andreozzo Ponziani.
Imboccato un corridoio deserto, sbuco in un cortiletto che fiancheggia la chiesetta di Santa Maria in Cappella. La spiegazione a tale appellativo, forse, è in una epigrafe conservata all’interno, che riporta fra l’altro, in forma abbreviata, «que appell[atur] ad pinea[m]», espressione divenuta poi nel gergo popolare “cappella”. Secondo un’altra ipotesi, cappella deriverebbe dal latino cuppella, ossia barile: ne sarebbe prova il fatto che nel XVI secolo, come già accennavo, la Confraternita dei barilai aveva qui la sua sede. Ancora più semplice la terza spiegazione: l’attuale chiesa sarebbe sorta su una precedente cappella o oratorio.
Ha finestre ad altezza d’uomo, sicché attraverso i vetri riesco a gettare uno sguardo nell’interno semibuio: distinguo tre navate, divise per ogni lato da cinque colonne, certo recuperate da edifici di epoca classica. Sulle pareti, resti di affreschi risalenti a chissà quale periodo. Evidenti anche le tracce di un restauro da tempo interrotto: lo conferma, abbandonato tra la polvere e mancante di un pezzo, un cartello con l’indicazione dei… lavori in corso!
Termino la mia visita col pensiero rivolto a questo tesoro minore d’Italia: uno dei tanti che ancora attende di essere valorizzato e restituito alla comunità.