Nel carcere la pandemia della solidarietà
Il carcere è un mondo di uomini e donne che hanno una storia segnata dal dolore, quello proprio e quello che hanno talvolta causato nelle vite degli altri. La pandemia li ha colti di sorpresa ma, paradossalmente, erano preparati perché da ristretti loro ci vivono da anni.
E proprio perché la situazione la conoscono molto bene, hanno deciso di lanciare un messaggio a quello che sono soliti chiamare “mondo libero”. Un messaggio di solidarietà, di speranza e, non ultimo, di disponibilità ad aiutare chi stava soffrendo.
Per farlo hanno scelto “I Cellanti”, il programma settimanale di Radio Vaticana Italia che si occupa di pastorale carceraria. «Così siamo sicuri che ci ascolterà papa Francesco. Ci vuole bene e parla sempre bene di noi. Anche noi gli vogliamo bene e preghiamo sempre per lui», hanno ripetuto più volte ai nostri microfoni.
Così facendo, hanno ancora una volta espresso il desiderio di essere trattati come persone e non come numeri o cose. La potenza del loro messaggio ha rovesciato l’aridità della condizione detenuta nell’attiva soggettività sociale e ha creato le possibilità di operare anche da reclusi attraverso condizioni di cooperazione con la comunità libera.
I loro gesti raccontanti all’emittente pontificia hanno riavvicinato il carcere alla società, al territorio, e chi ha ascoltato ha avuto la possibilità di guardare “oltre il muro” non più come ad un luogo dell’immaginazione, ma ad una vera comunità di socializzazione.
Gianni, Massimo, Orlando, Massimiliano, Daniele, Mouhcine, Paolo, Goffredo, Alessandro, Danilo, Silvio e Francesco. Sono solo alcuni dei nostri protagonisti, ognuno con un percorso diverso, drammatico per certi versi. Ragazzi che avrebbero potuto assumere altri atteggiamenti: lamentarsi, denunciare, protestare.
Invece hanno scelto la via della partecipazione e del coinvolgimento. «Abbiamo subito cercato di coinvolgere le ragazze in un progetto mirato dalla duplice finalità: mantenere l’occupazione e dare una mano a chi ne aveva bisogno. Da qui è nata la riconversione delle nostre sartorie per la produzione di mascherine», raccontano le volontarie di “Made in carcere”, l’associazione che dal 2007 realizza corsi di taglio e cucito nella Casa circondariale di Lecce e Trani. Stesse dinamiche, con risultati altrettanto sorprendenti, si sono manifestate a Forlì. E ancora a Napoli, dove fermare la pizza e il caffè non è certo impresa facile. E lo sanno bene le ragazze delle “Lazzarelle”, la cooperativa di sole donne nata nel 2010 che produce caffè artigianale, secondo l’antica tradizione napoletana, all’interno del più grande carcere femminile di Pozzuoli.
A Taranto i detenuti hanno realizzato mascherine destinate agli uffici giudiziari, mentre a San Vittore le ospiti hanno confezionato turbanti per le pazienti del reparto di ginecologia oncologica dell’Istituto dei Tumori di Milano. C’è dunque chi si è rimboccato le maniche e chi, invece, ha giocato d’anticipo puntando sulla solidarietà.
A Venezia, nella Casa di reclusione femminile della Giudecca è stato raccolto un bel gruzzolo (110 euro!) poi donato al reparto di Terapia Intensiva dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre, mentre dall’Istituto di Sanremo sono arrivati ben 100 kg di alimenti alla Caritas.
Questi sono solo alcuni episodi durante il lockdown che abbiamo scelto di raccontare per convincere anche i più scettici che umanizzare gli istituti deve essere l’obiettivo principale e per renderlo effettivo è necessario un impegno a tutto campo che sviluppi quell’inventiva pedagogica che è nella struttura e nei programmi di chi ogni giorno si prodiga affinché il detenuto non venga mai identificato con la pena che ha commesso. C’è inoltre chi ha riscoperto il piacere di scrivere.
Abbiamo raccolto tante testimonianze di iniziative che hanno visto protagonisti ragazzi e ragazze ristrette che hanno scelto di far conoscere fuori l’emergenza Covid-19 in carcere, i conseguenti provvedimenti restrittivi che hanno visto la sospensione temporanea dei colloqui visivi con i propri familiari, l’interruzione di tutte le forme di volontariato, fonte di massimo aiuto per coloro che si trovano privati della libertà negli istituti.
La produzione è stata sorprendente. Grazie all’esercizio della scrittura hanno rivelato, seppur con diverse sfumature, che il carcere oggi è sì concentrato sul ruolo della trasformazione degli individui, ma allo stesso tempo è la ragione principale dell’esclusione sociale. Il sistema di detenzione spesso supera la tolleranza dei diritti umani, cosa che rappresenta un enorme problema politico e sociale.
Qual è dunque l’alternativa alla cultura della pena? È evidente che le misure volte alla deflazione delle carceri mediante l’apertura a misure alternative alla detenzione vanno incontro alla doppia funzione di garantire condizioni umane per i detenuti, che comunque versano ancora in condizioni molto difficili, ma soprattutto risultano più efficaci per il recupero di coloro che hanno commesso reati minori e che mediante un sistema di giustizia riparativa hanno più possibilità di non delinquere oltre: occasione che in carcere verrebbe senz’altro meno.
È emerso dai loro racconti che un sistema di detenzione senza cura e trattamento umano del detenuto non funziona in maniera adeguata e spesso determina una ricaduta da parte dello stesso in terribili reati. Fare prevenzione durante l’esecuzione della pena e gli anni di detenzione non è sufficiente, se non si investe in una seria terapia, per garantire la sicurezza ed evitare la reiterazione del reato.
È necessario investire sempre di più nella rete che collega la realtà penitenziaria con la società civile, un ponte che va costruito per realizzare la vera prevenzione a tutela della sicurezza a tutti i cittadini. Il programma radiofonico della Radio Vaticana, in questo senso, intende contribuire a migliorare la qualità dei servizi, portando un significativo supporto ai detenuti, ascoltando i loro problemi e dando sostegno morale e psicologico.
Una piccola rivoluzione culturale sul concetto di detenzione e anche se sembra poca cosa il coinvolgimento di persone che hanno rotto il patto sociale serve a molto anche se il carcere per molti rimane un pianeta sconosciuto, ma abitato da persone concrete. Esistono le mura che delimitano l’area della detenzione, ma esistono anche le barriere del pregiudizio, che segnano le dimensioni dell’esclusione.
La vicenda della pandemia, pur nella sua drammaticità, ci ha confermato che il carcere può essere un luogo educativo (o meglio ri-educativo) dove poter esprimere continuamente una personalità attiva sia verso l’universale (lo Stato) che verso il particolare (le persone e i gruppi sociali). Un territorio di frontiera che oggi più che nel passato esige un surplus di progettualità per poter operare in favore della comunità. Non solo quella carceraria.