Noi nei panni dei bambini thailandesi dispersi
Sui media e sui social riecheggia ancora la notizia della giovane squadra di calcio salvata in Thailandia, accompagnata da commozione, da racconti di grande solidarietà da parte di tutto il mondo.
È stata una corsa contro il tempo, una preghiera corale, la generosità e la fratellanza si sono espresse su vari fronti, dai tecnici che prestavano la loro competenza da ogni latitudine, alle famiglie che cucinavano gratuitamente per gli scavatori. È stata una vittoria di squadra in tutti i sensi.
I 12 ragazzi erano rimasti intrappolati con il loro allenatore in una grotta il 23 giugno scorso e sono state necessarie lunghe giornate di lavoro per trovare le soluzioni più efficaci per predisporne l’uscita. I ragazzi fanno parte della squadra di calcio Moo Pa (cinghiale), il giorno della scomparsa erano con il vice allenatore Nopparat Kantawong.
Mi sono chiesta cosa ha fatto scattare tutta questa condivisione e solidarietà. Ad ogni telegiornale, il mio cuore (come di tanti) batteva con loro, ma perché questa esperienza ha creato una risonanza forte, forse più forte di tante tragedie che spesso affollano le news?
Ho pensato all’empatia, ai nostri neuroni “mirror” (o neuroni a specchio), la rete neurale che ci permette di “capire” gli altri, di immaginare il loro vissuto. L’empatia ci permette di immergerci nel mondo soggettivo altrui e di partecipare alla sua esperienza, sentire le emozioni (che l’altro suscita in noi), immaginare cosa sta provando.
Si basa molto sulla nostra autoconsapevolezza, pensiamo di sapere cosa l’altro vive, ma in realtà contattiamo il vissuto che nella nostra memoria si avvicina maggiormente a quello dell’altro. Gli studi sull’empatia dicono che quando entriamo in un racconto, si attivano gli stessi neuroni, quindi anche un’immagine o un libro che leggiamo può attivare questo sistema. Tale aspetto della nostra natura umana ci mette fortemente in connessione l’uno con l’altro.
Attraverso i mirror abbiamo immaginato come si sentivano i ragazzini dentro la grotta, la loro paura e i loro bisogni, abbiamo immaginato i sensi di colpa dell’allenatore perché sicuramente nella nostra vita abbiamo avuto un’esperienza in cui siamo stati responsabili di qualcosa. Abbiamo sentito nello stomaco l’angoscia dei genitori, chissà quante volte anche noi siamo stati in pensiero per la salute dei nostri cari. Abbiamo avvertito tutto il gioco di squadra dei professionisti che si sono spesi (in un caso anche a costo della vita) e sono stati sinergici e collaborativi.
I nostri neuroni a specchio, la nostra vista, uniti alla nostra capacità immaginativa ci hanno fatto vivere questa avventura a lieto fine come se fosse dietro l’angolo di casa nostra. Vivevano un’esperienza al di fuori del normale, ma potevamo esserci tutti noi al loro posto, era immediato il mettersi nei loro panni.
Adesso che si è conclusa l’operazione di recupero, dopo 18 giorni in trappola nella grotta, auguro a questi ragazzi di ritrovare presto le forze e di trasformare un’esperienza potenzialmente traumatica in crescita post traumatica; la sofferenza può convertirsi in risorsa. Immaginandoli tra qualche anno, mi piace pensarli uomini coraggiosi, con una grande capacità empatica perché nel loro bagaglio ci sarà un’esperienza importante.