Nei carrugi di Fabrizio
Genova non nasconde la sua bellezza: popolare, grottesca, povera, nascosta, umile. Quella di via del Campo, quella musicata per anni da Fabrizio De André. È proprio per lui che decidiamo di dedicare uno dei rari giorni di riposo a fare visita al capoluogo ligure.
La compagnia scelta è di quelle giuste: accogliente, bella, diversa e solare. L’ora di partenza, invece, non la possiamo scegliere. Lo fa per noi Trenitalia imponendoci l’orario di partenza dell’intercity Torino-Roma dalla stazione di Porta Nuova. Ed è proprio qui che gli elementi della spedizione si congiungono e danno il via al viaggio in una giornata che ciondola tra sole e nostalgie d’un inverno inclemente. Tore e Marcello, amici di vecchie avventure, sono già in attesa del nostro arrivo e così con me, Cinzia, Flavio e Claudia, il gruppo si completa.
Si dice che le passioni come gli amori non si scelgono. Arrivano per “caso”; è stato Massimiliano, amico inossidabile, fratello e compagno di indimenticate battaglie – vinte o perse che siano state – che in una notte d’inverno mi ha appassionato a Faber. Da allora ho letto ed ascoltato così tanto di Fabrizio De André che quel giorno potevo permettermi di fare da “Cicerone” al gruppo di amici diretti in Liguria.
Ho imparato a conoscere Faber come uno che ha musicato e scritto ciò in cui ha creduto ed amato. E lui, più che altri, ha amato e creduto nell’umanità. Quella sofferente, privata della sua libertà, del suo aspetto più dignitoso, della sua bellezza. L’umanità deturpata dalla violenza delle armi e dall’ingiustizia dei forti nei confronti dei deboli; l’umanità della povera gente, delle prostitute che per anni hanno popolato i carruggi ed il porto ancor lontano dalla genialità architettonica attuale.
Potessero parlare le varie bocche di rosa evidenziate dalla sua sete di umanità, o prendessero vita i vari Piero di tutte le epoche morti in Bosnia, sulla Striscia di Gaza, in Liberia, sulle linee di confine di oggi e di ieri. Forse tutti questi reietti, rimasti per anni senza nome, si recherebbero volentieri a Staglieno e, divincolandosi, tra gli sfarzi del cimitero più visitato d’Italia, andrebbero da Fabrizio per un grazie.
Sì, perché Fabrizio parlava di chi nessuno osava proferir parola, sbeffeggiandosi di criteri di mercato e strategie di vendita. Il nome di De André è inscindibilmente legato al concetto di interesse verso gli ultimi, verso il popolo, verso ciò che puoi assaporare in ogni attimo.
Con la stessa passione nel cuore di Faber, Genova ha un altro sapore. Gli incontri casuali alla ricerca di un negozio in grado di annientare la nostra voglia di focaccia locale, gli approcci con la gente dei carruggi sono attimi che elevano lo spirito dei viaggiatori e ci fanno gustare quanto è bella l’umanità attraverso la quale si incontra inesorabilmente Dio.
Genova rapisce il cuore. Geograficamente al nord ed esposta alle correnti tirreniche che a febbraio non sono affatto accoglienti, esprime la stessa voglia di stare tra la gente che puoi incontrare a Palermo, Catania, Reggio Calabria e Napoli; anche l’indole sportiva, in bilico precario tra l’amore rossoblù e quello blucerchiato, tra le scritte che osannano Cassano o Milito a seconda del versante in cui ti trovi, esprime il calore di una terra col sangue bollente.
Più Genova si libera dai suoi veli, più capiamo il “carisma” di Fabrizio, ragione del nostro viaggio. È con questa convinzione che a metà del pomeriggio, mentre ci facciamo coccolare da un tiepido sole di passaggio da Piazza Garibaldi, incontriamo Zlatan. Lineamenti vistosamente dell’Est, volto scavato dalle tribolazioni di una vita che per lui non avrà di certo fatto sconti, in compagnia di un violino suonato senza eccessiva grazia, presidia un bar alla ricerca di un bottino da verificare la sera. Diventiamo amici e sembra essere di casa al nostro tavolo.
Foto di gruppo, pacche sulle spalle, sorriso; poi ci lasciamo scroccare qualche spicciolo e una Moretti da 33 cl. In fondo è il suo mestiere e dimostra di saperlo fare! Lui è contento e noi con lui perché Zlatan ci ha portato ancora più dentro alla Genova cantata da Faber. Ora la visita alla mostra sembra quasi superflua, ma sarebbe troppo paradossale non farci staccare il biglietto da pochi euro che ci consente l’ingresso.
Lo stupore continua: Faber raccolto con maestria e classe in poche manciate di metri quadri: è il suo regno, dal quale si sprigiona tutta la potenza del suo bagaglio di valori. Il suo rapporto con la libertà, l’amore, la guerra, con gli ultimi e con Genova, cantato dalla sua caparbietà rivoluzionaria e apparentemente anacronistica, ma sempre in grado di toccare le corde più intime del cuore e rinverdire in chi ascolta propositi di cambiamento. Poi, tra un tuffo nel passato e un’intervista resa viva e attuale dalla tecnologia, Faber scompare e sono i personaggi che lui ha cantato a fare gli onori di casa e interpellare il viandante.
Bocca di rosa, Piero, Marinella, il giudice, il matto, l’ottico, Andrea, Tito, il pescatore, Nina, i morti del Send Creek. Sono tutti lì ad attenderci e ispirarci propositi di nuova vita. Quando usciamo, la piazza di Palazzo Ducale è al bivio tra il giorno e la notte. Abbiamo il tempo per organizzarci e, schivando le bancarelle del mercato provvisorio, dirigerci verso la stazione di Brignole per la fase finale del nostro viaggio.
Un po’ commosso mi volto verso Palazzo Ducale e, avvolta nella penombra di una notte che avanza, scorgo ancora la gigantografia di Fabrizio col capo piegato sulla chitarra. Si scorgono bene il suo volto un po’ coperto dal ciuffo e una delle tante sigarette che l’hanno strappato alla vita. Lasciamo ad altri l’incombenza di capire se la sua partenza è stata prematura. Quel che è certo è che la sua vita continua a dire e a fare vivere in tanti il desiderio di incontrare l’umanità di tutti i giorni. Soprattutto quella dimenticata e offesa. Quella di bocca di rosa, di Piero, del matto e perché no, anche quella di Zlatan. Il violinista.