Nefertari da qui all’eternità
Ramesse II, il grande faraone, non sapeva ancora decidersi ad abbandonare le spoglie mortali di Nefertari, «la più bella›› (tale il significato del nome), la sposa straordinariamente amata che aveva condiviso con lui il governo dell'Alto e Basso Egitto, le sacre cerimonie e gli aveva dato almeno sei discendenti.
Egli aveva accompagnato come in un sogno sia il viaggio della salma sul Nilo, nella barca dorata, sia il tragitto fino alla Valle delle Regine; ed ora, concluse le solenni cerimonie funebri, tra cui quella dell"'apertura della bocca", contemplava pensoso la tomba per lei preparata: estrema dimora tutta rivestita di pitture raffinate che descrivevano il viaggio ultraterreno della sua adorata.
Fiaccole e lucerne rischiaravano con fantastico effetto quelle scene per le quali artisti eletti avevano profuso il meglio di sé e sopra le quali mai più occhio umano si sarebbe posato: erano in verità fatte per gli dei più che per i mortali.
Eterna era la bellezza: finché quelle pitture dal magico potere, che la esprimevano, sarebbero rimaste, finché il corpo reso incorruttibile di lei avrebbe riposato nel suo triplice sarcofago (due di legno dorato e l'ultimo di granito rosa), Nefertari “amata da Mut", la divinità tebana sposa di Ammone, avrebbe vissuto immortale.
Nel susseguirsi delle scene dipinte, egli assisteva alla preservazione del corpo di lei, cui venivano conferiti nuovi occulti poteri, ad opera di Anubi, il dio dei morti con la testa di sciacallo; la rivedeva poi sfolgorante di bellezza, con la corona piumata di regina dell'Alto e Basso Egitto e la snella figura avvolta in vesti trasparenti, andare incontro fiduciosa al suo nuovo destino, scandito da incontri con le varie divinità: ad esse lei porgeva adorazione e sontuose offerte, e in cambio riceveva i loro favori.
Tutto il pantheon egizio sembrava coalizzato per assicurare a Nefertari «l'infinità della vita, la durata, la fortuna e la gioia», i cui simboli le comparivano costantemente accanto. Ma ad onta dell'aura serena, era il racconto di un dramma, quello: si trattava pur sempre di affrontare, da parte sua, i misteri e i pericoli di quel regno dell'oltretomba le cui sette porte erano vigilate da temibili guardiani, prima di essere accolta nel consesso celeste come spettava a colei che, assieme al faraone, rappresentava la divinità in terra.
Ogni trepidazione si scioglieva tuttavia di fronte a ciò che promettevano le credenze egizie, perfettamente espresse su quelle pareti. I quattro timoni rappresentanti i punti cardinali,
strumenti per orientarsi e viaggiare attraverso gli oceani del cosmo, erano dipinti apposta nel1'annesso superiore della tomba. E le formule geroglifiche tratte dal Libro dei Morti (o «per uscire al giomo››) non erano lì, squadernate accanto ad ogni tappa? Bastava ricorrere ad esse, rispondere con le formule esatte agli dei e il buon esito del viaggio era garantito.
Un'ultima volta sostò Ramesse accanto al grande sarcofago dove la sua Nefertari dormiva col capo rivolto a Occidente, in modo che i suoi occhi si riaprissero ogni giorno al sole nascente. Forse mormorò una preghiera ad Osiri affinché il cuore della sposa, pesato dal dio scriba Thot, risultasse leggero come la piuma nell'altro piatto della bilancia, e le venisse detto: «Ti concedo un posto nella
Terra Sacra; possa tu essere felice nel Luogo della Verità… Tu, l'osiriana, grande sposa reale Nefertari».
Uscita illesa dal giudizio, la sua resurrezione sarebbe avvenuta proprio lì, fra i quattro pilastri che
ne circondavano il sarcofago; pilastri sui quali apparivano divinità funerarie che abbracciavano la regina in un gesto di rituale intimità e tenerezza. Una di esse, Isi, prendendola per mano, le avvicinava alle narici un “ankh”, gesto definitivo con cui le era restituito il soffio vitale.
Dopo aver deposto sopra il coperchio sepolcrale una coroncina di fiori di loto, il faraone uscì dalla camera satura di aromi, e risalì lentamente la rampa che conduceva all'esterno, seguito dalla sua scorta, dai dignitari, dai sacerdoti salmodianti, perché la tomba venisse definitivamente sigillata.
Al passaggio del corteo, fiaccole e lucerne illuminarono ancora le suppellettili, le vesti, i monili, le provviste alimentari e quant'altro era necessario alla regina per la sua nuova esistenza ultraterrena. Un'ultima volta la smagliante tavolozza dei colori sulle pareti – dall'azzurro turchese o lapislazzulo, al verde smeraldo, al1'arancio, al bianco – si ravvivò. Poi la luce si ritrasse dal sepolcro, che fu invaso dal buio malgrado le miriadi di stelle dorate dipinte sulle volte di un blu cupo, a simboleggiare il cielo su cui il dio del sole Ra, notte dopo notte, conduceva la sua barca.
Nefertari era sola, adesso. Sola infatti era stata raffigurata in quella "casa dei milioni di anni" come se non avesse avuto né marito, né figli, né uno stuolo sterminato di schiavi e di ancelle. Più nessun mortale, ma solo dei erano ormai suoi interlocutori, com'è giusto per chi ha varcato le soglie dell'A1di1à.
Questa, pressappoco, la plausibile ricostruzione di un evento accaduto oltre 3500 anni fa, ma che ha qualcosa da dire anche a noi, uomini di questo secolo. Il viaggio di Nefertari ci parla infatti di un'esperienza comune, che ognuno dovrà prima o poi affrontare: da quali prospettive e con quali mezzi, dipende da ciò che crede.
Forse per questo chi giunge nella Valle delle Regine accanto a Luxor (l’antica Tebe), dalla visita alla sepoltura dedicata alla sposa di Ramesse II riceve non soltanto la visione di un'arte di squisita fattura, ma uno stimolo ad una riflessione sul destino ultimo dell'uomo.
L'ossessione dell'immortalità: forse in nessun popolo dell'antichità, come in quello egizio, troviamo 1'ansia di sopravvivere spinta a così alto grado. Permeando essa tutte le espressioni della vita, non aveva senso pertanto distinguere il sacro dal profano.
Se in Egitto la dottrina della resurrezione si applicava inizialmente solo al dio Osiri, ucciso e riportato in vita, e quindi ai faraoni, specie dal Periodo Medio in poi chiunque, fino all'ultimo schiavo, poteva e doveva cercare di meritare il passaggio all'eternità, dedicando cure speciali al proprio corpo dopo la morte.
Solo in apparenza però ciò riusciva meglio ai faraoni, che pure disponevano dei mezzi per ogni più ingegnoso accorgimento atto ad assicurare loro la sopravvivenza ultraterrena. In realtà i favolosi tesori di cui si circondavano anche da morti esercitavano un troppo potente richiamo sui violatori di tombe, i quali già nell'antichità, per impossessarsene, sfidavano i più tremendi castighi. Ecco perché
solo pochissime tombe sono pervenute intatte fino ai giorni nostri. Più fortunati, almeno sotto questo aspetto, i poveri i cui miseri sepolcri venivano lasciati in pace.
Neppure la tomba di Nefertari sfuggì alle depredazioni. E quando Ernesto Schiaparelli, capo della missione italiana in Egitto e direttore del Museo Egizio di Torino, la scoprì nel 1904, si trovò davanti ad uno spettacolo desolante: spezzato il sarcofago di granito, scomparsa la mummia con le ingenti ricchezze che non potevano mancare accanto a tanto personaggio, restava per fortuna il tesoro forse più prezioso: gli affreschi murali, ritenuti fra i risultati più alti dell'arte egizia, già allora però ridotti in uno stato deplorevole a causa dell'umidità.
Dei pochissimi oggetti del corredo funebre di Nefertari che l'archeologo italiano poté recuperare, sparsi poi in vari musei del mondo, due sono forse i più toccanti: un anello di corniola rossa con incisi i nomi della regina e di Ramesse II, e un paio di sandali di fibre vegetali. Fragili sandali miracolosamente intatti, che alludono meglio di ogni altro reperto al viaggio che «colei per la quale splende il sole» fece verso il regno di Osiri.