Nedda Falzolgher, ”allodola” ferita
Chi si ricorda di Nedda Falzolgher? Eppure è stata una delle voci più pure e autentiche del nostro Novecento letterario, apprezzata da nomi prestigiosi come Ettore Cozzani, Bruno Cicognani, Silvio D’Amico, Mario Pomilio. Sembra esprimere questo oblio il nome stesso che lei si era dato nel postumo Libro di Nil: Nil, cioè Niente. Trento però, la sua città natale, non l’ha dimenticata, dedicandole un convegno nel 1983, pubblicando nel 1978, a cura del Comune, un volume di sue poesie e prose, intitolando a lei una strada e una targa sulla casa affacciata sull’Adige dove, tranne il periodo in cui dovette sfollare durante l’ultima guerra, consumò i primi 37 anni della sua non lunga esistenza.
Lì Nedda era nata il 26 febbraio 1906, essendo ancora il Trentino sotto la dominazione austriaca. Verso i cinque anni la poliomielite le colpì gambe e braccio destro, costringendola in carrozzina per il resto della vita: viso dai lineamenti regolari, voce dolcissima, occhi abituati a spaziare nell’alto, per nulla intaccate le facoltà mentali, ma un piccolo corpo deformato dalla paralisi. Fece in tempo ad attraversare le due guerre mondiali, anzi durante la seconda rischiò di morire sotto il primo bombardamento di Trento, quello del 2 settembre 1943. Assistita da mamma Maria e dalla fedele amica Adele Frainer, domestica dei Falzolgher ma soprattutto sua intima amica, non si mosse mai – tranne un breve soggiorno a Roma, invitata dall’amica attrice Edda Albertini – da quel mondo trentino nel quale si dispiegò la sua parabola artistica e dove morì cinquantenne il 2 marzo 1956.
Autodidatta intellettualmente precoce, sensibilissima, istruita dai genitori e dalle amate letture, quanto più impedita dalla menomazione fisica e obbligata a rinunce dolorose, prima fra tutte l’impossibile maternità, tanto più Nedda bruciò di amore per la vita, avida di ricevere e dare amore («io non ho solco per vivere/e non ho paradiso per morire;/e sento in me stormire/quest’agonia d’amore»).
Reagì all’emarginazione della sedia a rotelle, come pure all’amore superprotettivo dei suoi che la volevano come fiore in una serra, col trasformare la sua casa «a specchio sul fiume/così sola nell’urlo delle piene» in un piccolo cenacolo culturale dove giovani letterati e poeti si riunivano di frequente per conversare di un po’ di tutto e per improvvisate gare poetiche alle quali si plaudiva, si rideva: preziosi momenti di serenità e letizia per lei che aveva il culto dell’amicizia.
Come la corrente dell’Adige, metafora della vita e del suo fluire (sembrava portare i suoi sogni lontano, verso genti e paesi che mai avrebbe visto di persona), la poesia fluiva in lei nella sua giornata claustrale, e il suo canto si alzava limpido come quello dell’allodola, uccello nel quale lei ama identificarsi in più d’una lirica. Qui è l’allodola ferita, caduta: «Nel solco, allodola scura,/che nuda paura, la notte,/quando l’ala s’è intrisa nella terra,/e tramontati i cieli,/tutta trasale sulla zolla nera/come il sonno dei morti./[…] Finché da tutto il male rifiorita,/su dai prati a solatìo/saetti via sul fremito del canto,/grido di luce al paese di Dio».
Distaccata da scuole o correnti letterarie, anche se assimilò le tecniche più raffinate della poesia moderna e contemporanea, Nedda percorse un itinerario spirituale e poetico tutto suo: ospitando nell’intimo, senza però vittimismi, un dolore che non era più solo il proprio, ma quello di tutte le creature sofferenti del mondo. Dio era la sua forza («Datemi la forza di poter scrivere, Signore; fate ch’io possa chiudere in me e alimentarla sempre della più pura luce questa forza divina e indomita come una limpida fonte»); Dio sempre invocato anche quando, oppressa dalla prova, lo sentiva «amaro Iddio del silenzio».
Del resto, mai che si trovi, nella sua poesia, accenno alla disabilità. Prevale invece l’«amore per il creato e l’increato, per il visibile e l’invisibile, per tutte le vibrazioni che palpitano nel cosmo, dai grandi astri al cuore trafitto dell’uomo all’ultimo fremere di uno stelo».
Il canto lirico di Nedda si esprime, soprattutto, attraverso metafore e analogie con il mondo naturale. Come in questi versi nei quali si paragona al greto dell’Adige sotto il sole nei periodi di magra: «Come il greto porto splendore/e non ho voce che mi riveli/ e sento crescere infiniti steli/come gridi d’amore». Lo stesso inchiostro adoperato per scrivere con la mano sinistra (l’altra era paralizzata), era rigorosamente verde, il colore della natura e della vita.
Con l’andare degli anni, più la poesia scavava in lei, più Nedda sperimentava l’isolamento della farfalla nel suo bozzolo: solitudine crescente dopo la morte della madre adorata, quando accanto le rimasero solo papà Mario «chiuso in un silenzio che nascondeva la disperazione di non poter dare aiuto» e la fedelissima Adele. Scriveva: «Devo avere il coraggio di vivere sola, di pensare sola, di soffrire sola. Nessuno potrà capire che la mia strada è questa; nessuno dirà: vengo con te».
Di lei ci restano due raccolte pubblicate in vita: En piaza del Littorio del 1934 e Fin dove il polline cade del 1949, la seconda a segnare l’esito più maturo della sua produzione poetica. Poi il già menzionato Libro di Nil del 1957, con presentazione di Silvio D’Amico, dove afferma: «L’amore universale rende le creature trasparenti: oltre la loro immagine, dilaga l’aspetto di Dio. Rendi trasparente il tuo cuore, e chi ti ama conoscerà la speranza dell’eterno». Questa trasparenza d’anima purificata dal dolore è forse la chiave della poesia di Nedda.