Il dibattito sulla povertà
L’arena storica del Circo Massimo a Roma è pronta per il grande raduno nazionale del M5S in programma dal 20 al 21 ottobre. Si attende un bagno di folla, nonostante la polemica aperta nel governo con la componente leghista sulla questione dei controversi condoni fiscali introdotti nella manovra economica che è stata, tra l’altro, criticata pesantemente dai vertici europei per “grave inadempienza” delle regole del patto Ue.
I tempi dettati sono brevissimi, perché la Commissione europea ha sollecitato il premier Conte a rispondere entro lunedì 22 ottobre ai rilievi sul progetto di Bilancio per poter arrivare ad una valutazione definitiva che si preannuncia a fine mese.
Lo spettro della bocciatura dell’Italia si avvicina con tutte le sue incognite, mentre molti commentatori, oltre ai partiti di opposizione, non si risparmiano nel descrivere il quadro di un esecutivo pericolosamente inesperto e arrogante. La tensione è molto alta e tutto appare instabile proprio nel momento in cui la nuova maggioranza è a un passo dal nominare i responsabili del palinsesto della Rai, un tassello importante nella definizione della narrazione pubblica.
Il rapporto Caritas “povertà in attesa”
È pertanto significativo dare conto di uno spazio di aperto e serio dibattito che si è avuto mercoledì 17 ottobre tra gli esponenti dell’Alleanza contro la povertà e l’economista Pasquale Tridico, autorevole consigliere del M5S, durante la presentazione a Roma del rapporto Caritas 2018 sulla povertà.
Nei locali della Fondazione con il Sud, diretta da Carlo Borgomeo, l’organizzazione caritativa della Chiesa italiana ha presentato, come ogni anno, un denso e accurato rapporto pieno di analisi utili per fotografare la realtà di un Paese che non riesce a superare un processo di impoverimento che non si ferma.
I metodi di campionatura e conteggio dell’Istat variano nel tempo, ma il dato sul numero di persone in condizioni di povertà assoluta è cresciuto, anche nell’ultimo anno, da 4 milioni 700mila del 2016 a 5 milioni 58mila del 2017, interessando soprattutto la fascia giovanile di età.
Caritas e Acli hanno promosso un vasto cartello di associazioni per promuovere il modello del Reis ( Reddito di inclusione sociale) elaborato da un comitato scientifico coordinato dal professor Cristiano Gori, ora incardinato nell’università di Trento, e che sembrava a un passo dall’essere accolto integralmente con il governo Letta e il ministro del Lavoro e Welfare Enrico Giovannini.
I successivi governi a guida Renzi e Gentiloni hanno, alla fine, introdotto una misura ridotta chiamata Rei, presentata come primo tassello di un piano graduale, destinato ad assicurare l’intervento verso tutti i cosiddetti poveri assoluti, compresi gli stranieri residenti da oltre 10 anni nel nostro Paese.
Dubbi e timori (secondo Gori)
Come ha detto a Città Nuova Gori fin dall’inizio, il Reis è una misura da non confondere con le politiche attive per il lavoro perché è destinata agli ultimi, cioè alle persone in povertà assoluta secondo un approccio che associa il contributo monetario a un più vasto impegno inclusivo che coinvolge terzo settore ed enti locali.
Scelta che comunque non soddisfa coloro che ritengono il reddito di inclusione viziato da logica assistenzialistica. I sostenitori del basic income ,invece, sostengono la necessità di non porre alcun requisito da rispettare per ricevere un vero “reddito di cittadinanza” che spetta a tutti senza condizioni.
Il reddito di cittadinanza promosso dai 5 stelle ha questo nome ma prevede molte condizioni per poter essere erogato: tra tutti, il reddito basso, la cittadinanza italiana, l’obbligo di formazione e 8 ore di lavoro gratuito a settimana. Le risorse impegnate nella legge di bilancio sono molto di più di quelle ipotizzate dal Rei, senza dimenticare i 2 miliardi di euro destinati alla riforma degli uffici di collocamento, vero perno della riforma promossa dal cosiddetto governo gialloverde.
Le risorse sono maggiori di quelle destinate al Rei, ma Gori teme che le misure «contro la povertà vengano trasformate in politiche per il lavoro, da indirizzare invece a persone disoccupate, ma non in povertà assoluta, che generalmente hanno maggiore accusabilità. Una simile scelta danneggerebbe, innanzitutto, i poveri di oggi, privandoli di quell’insieme di risposte di cui l’inclusione lavorativa è solo una parte».
Per essere ancora più chiari, Gori ribadisce che «le politiche contro la povertà sono rivolte a chi è in povertà assoluta (5 milioni di persone,ndr), cioè privo delle risorse per assicurarsi uno standard di vita appena decente».
«Oggi con il Rei 2,5 milioni di persone sui 5 in povertà assoluta ricevono in media 206 euro mensili. Secondo le stime dell’Alleanza contro la povertà, per assicurare a tutti i poveri assoluti una misura di importo adeguato a uscire dall’indigenza (in media 396 euro mensili) servono altri 5,8 miliardi annui». Cifre compatibili con la capienza dichiarata dal governo che tuttavia persegue altre prospettive. Ad esempio incrementando le cosiddette “pensioni di cittadinanza”, che, secondo Gori, interessano gli anziani e cioè coloro «che meno soffrono la povertà in Italia, dove il fenomeno aumenta progressivamente al ridursi dell’età».
Il forte timore del docente promotore del Reis è che l’esaurimento delle risorse e i mancati risultati di abbattimento dei livelli di povertà conseguenti all’applicazione della misura sostenuta, in particolare, dal M5S finisca per travolgere ogni futura applicazione di politiche contro la povertà assoluta.
Il pilastro sociale (secondo Tridico)
La tesi esposta da Pasquale Tridico, professore di economia politica dell’università di Roma Tre e consigliere del ministro del lavoro Luigi Di Maio, parte invece da diversi modelli economici di riferimento.
Descrive il reddito di cittadinanza «un reddito minimo condizionato utile sia ad aggredire gli elevati livelli di povertà, vera emergenza nazionale, che a favorire il reinserimento dei lavoratori nel mercato del lavoro».
Uno strumento niente affatto anomalo, ma «simile a quello esistente nella maggior parte dei Paesi europei e che la stessa Unione Europea chiede a gran voce nell’art. 14 del nuovo Pilastro Sociale, laddove afferma solennemente che: “Tutti coloro che non hanno risorse sufficienti, hanno diritto a ricevere un reddito minimo che assicuri la dignità della vita in tutti i suoi stadi, e un effettivo accesso ai beni e ai servizi. Per tutti coloro che sono in grado di lavorare, il reddito minimo dovrebbe essere combinato con incentivi ad essere reintegrati nel mercato del lavoro”».
Quindi una misura che ha effetti diversi a seconda dei beneficiari, ma sempre destinato ad avere «effetti moltiplicativi sui consumi, sull’occupazione e sul reddito».
In tale visione, questa tipologia di reddito di cittadinanza ha «una natura strutturale e non soltanto ciclica», cioè persegue l’obiettivo di una crescita della «produttività complessiva del Paese grazie alla ricostruzione delle competenze e del capitale umano di milioni di persone». La premessa di tale proposta consiste nel fatto che l’Italia ha il 33% di inattivi e disoccupati che sono una grande forza sommersa da far riemergere.
Alcuni brani di un dialogo che palesa visioni e soluzioni contrapposte che sarà necessario approfondire tra persone disponibili a farlo, partendo da una premessa esplicitamente condivisa nell’incontro e cioè che le misure contro l’impoverimento rappresentano non un costo ma un investimento.
La stroncatura di “Rete numeri pari”
Concetto comune anche ad altre realtà sociali come la “Rete numeri pari” che tuttavia, nella stessa mattinata del 17 ottobre, giornata mondiale del rifiuto della miseria, con una conferenza pubblica, presso la Federazione nazionale della stampa italiana, ha voluto denunciare l’intero impianto di «una manovra che non contrasta le disuguaglianze, provocate dai tagli al sociale, dalle politiche di austerità, da politiche fiscali regressive, dalla crescita esponenziale del lavoro precario e sottopagato, dall’assenza o dalla limitatezza di investimenti pubblici adeguati in settori ad alta intensità di lavoro o legati alla filiera della riconversione ecologica delle attività produttive».
La Rete numeri pari – nata dalla “campagna miseria ladra” promossa da Libera e Gruppo Abele, e che rappresenta oltre 600 realtà –, aveva iniziato un confronto poi arenatosi con il M5S, tanto da affermare che il “Reddito di cittadinanza” «non può essere definito come una forma di reddito minimo garantito, in quanto rappresenta un sussidio di povertà, condizionato al lavoro gratuito e a una serie di controlli e limitazioni che violano i principi stabiliti dalla Commissione europea e dal Parlamento europeo a partire dal 1992». Secondo don Luigi Ciotti «i poveri non chiedono elemosina ma dignità. Abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale».
Il dramma sociale della povertà può suscitare rassegnazione o indurre una forte conflittualità, ma ciò che occorre davvero è non stancarsi di tenere un varco aperto per chi vuole ragionare sui contenuti, soprattutto in tempi difficili e travagliati.