Né emarginati né assimilati
Due adolescenti, sorpresi dopo aver sparso del carburante per terra, vengono accusati di tentato incendio doloso. In effetti, quando i carabinieri arrivano si rendono conto che i due quella benzina la stanno sniffando. Per stordirsi, per placare i morsi della fame. Non farebbe, purtroppo, notizia un fatto del genere se riguardasse paesi del cosiddetto terzo mondo dove comportamenti del genere sono drammaticamente “normali”. Ma l’episodio in questione non è successo per le strade di Bombay o di San Paolo. Siamo a Trastevere, antico quartiere di Roma, ed i protagonisti della vicenda sono giovani rom che vivono (affermare che abitano sarebbe quasi un lusso) in uno dei campi nomadi della capitale, La Muratella. Uno dei tanti che in questa, come in altre grandi città, accolgono nelle periferie soprattutto quelli scappati nel corso degli ultimi decenni dai paesi dell’Europa orientale. Ci sembra di conoscerli perché li incrociamo ai semafori, davanti alle chiese, per strada. Con la mano tesa. Chissà se a chiedere solo soldi o qualcosa d’altro genere. Per noi hanno un nome: zingari. Con una connotazione razzista più o meno esplicita. Quasi come “vu cumprà” o “barbaro” oppure “negro”. Si tratta invece di un popolo composito fatto di cinque gruppi principali: rom, sinti, kalè (gitani della penisola iberica), manouche (francesi) e romanichals (inglesi). Molto diversi fra di loro hanno un’origine comune, l’India del nord, ed una lingua comune, il romanès o romani. Dati interessanti su queste comunità sono emersi da uno studio pubblicato di recente dal Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (Undp). Veniamo così a sapere che ad esempio uno su due soffre la fame almeno per qualche giorno ogni anno, mentre uno su sei è costantemente affamato. E ancora che un terzo dei rom non ha completato il ciclo di istruzione elementare e due terzi non hanno ultimato gli studi secondari. I bambini rom, poi, sarebbero sottorappresentati negli istituti scolastici ordinari, mentre sono fin troppo presenti negli istituti specializzati per bambini in difficoltà, anche quando non sarebbe necessario. E quando si parla di scolarizzazione tocchiamo un tasto scomodo ma cruciale. Sempre secondo il Rapporto Undp, infatti, mancanza di istruzione e di lavoro, sarebbero i più grandi ostacoli all’integrazione con la popolazione locale. I documenti ufficiali non mancano. Dalla Dichiarazione universale dei diritti umani che afferma il diritto di ogni individuo all’istruzione, alle varie circolari ministeriali che ne ribadiscono l’attuazione. Ce n’è una del marzo 2002, ad esempio: dice testualmente che “è previsto, per i minori stranieri presenti sul territorio nazionale, la possibilità di chiedere l’iscrizione alle scuole italiane di ogni ordine e grado in qualunque periodo dell’anno scolastico”. Nei fatti, quando una famiglia rom si trova a cercare una scuola per i propri figli, il più delle volte non la trova o, quantomeno, non subito. I problemi sono tanti. Dai pregiudizi diffusi tra genitori e insegnanti gaggè (come i rom definiscono gli altri), alla povertà che non consente loro di comprare l’attrezzatura necessaria, alle distanze proibitive (mancando un servizio di trasporto pubblico adeguato) tra campi nomadi e istituti scolastici. Insomma non è esagerato parlare di un diritto all’istruzione che viene per lo più negato. Tutti elementi questi, che non facilitano un inserimento naturale di tali comunità nel territorio che si trovano a popolare. E allora non meravigliamoci se questi bambini anziché andare a scuola stanno per le strade a chiedere l’elemosina. Solo nella capitale, ad esempio, sono più di 2500 quelli in età scolare. Situazione questa che ha spinto gli amministratori dell’urbe ad aprire un Centro comunale per il contrasto alla mendicità. Una villetta di tre piani in grado di accogliere, in un ambiente familiare e sereno, i minori (non solo rom) sottratti alla strada che fino ad oggi venivano portati in questura o nei centri di assistenza. Qui possono giocare, essere visitati, parlare con gli operatori. In questo modo si raggiungono più risultati. Intanto si evita ai bambini lo choc della trafila strettamente giudiziaria (foto segnaletiche, controlli ). Inoltre si avvia un rapporto con le loro famiglie, alle quali si assicura il sostegno necessario per una vita più dignitosa. La meta è quella di evitare ogni forma di sfruttamento. Uno dei tanti passi possibili verso l’integrazione? La sfida è aperta su entrambi i fronti.