Nazionalizzare conviene?

Il processo delle privatizzazioni nei Paesi dell'America Latina ha registrato diverse fasi, spesso caratterizzate da corruzione e ingiustizie
Cristina Kirchner

La decisione del governo argentino di espropriare il 51 per cento delle azioni della spagnola – si fa per dire, dato che a sua volta questa azienda è controllata da firme estere – Repsol, che controllava l’azienda petrolifera argentina Ypf, e quella del governo boliviano di espropiare Tde, l’azienda incaricata del trasporto dell’elettricità, ha rimesso in discussione la questione delle nazionalizzazioni delle risorse naturali e di aziende a suo tempo privatizzate in vari Paesi latinoamericani.
 
Va detto, prima di tutto, che i Trattati bilaterali di protezione e promozione degli investimenti (Tbppi), che in genere sono una sorta di schema fisso applicato dai Paesi firmatari, prevedono i casi di espropriazione delle attività o dei diritti in concessione. Ogni azienda che investe in risorse naturali o servizi in un altro Paese sa che esiste una tale possibilità. Per questo vengono stabiliti meccanismi per risolvere eventuali controversie, tra i quali la fissazione di una indennizzazione adeguata. Il che dovrebbe suggerire estrema cautela da parte di chi investe, nel rispettare le norme del trattato e della concessione per lo sfruttamento del bene in questione.
 
In secondo luogo, già spostandoci sul piano dei princìpi, la decisione sovrana di un governo di considerare strategiche determinate attività o risorse, rientra nel campo delle legittime facoltà generalmente sancite dalle costituzioni nazionali. Nella storia di ogni Paese troveremo dunque episodi del genere. Pertanto non dovrebbe meravigliare che negli ultimi anni, in America Latina, i governi di Argentina, Ecuador, Venzuela e Bolivia abbiamo fatto marcia indietro su alcune privatizzazioni.
 
Se esaminiamo il processo delle privatizzazioni, che ebbe il suo auge negli anni Novanta, questo fu portato avanti in maniera forzosa, approfittando della debolezza politica ed economica di questi Paesi, spesso sotto la pressione dell’indebitamento estero lievitato in modo grossolano e, si direbbe, con questa finalità, e in un contesto poco trasparente. Il caso più eclatante è stato l’applicazione del “Piano Brady”, dal nome di Nicholas Brady, ministro dell'Economia degli Usa che, verso la metà degli anni Novanta, “propose” (le virgolette sono d’obbligo, perché i Paesi indebitati furono praticamente obbligati ad accettare) la ristrutturazione del debito estero dei Paesi in via di sviluppo. La ristrutturazione in realtà servì ad atomizzare ulteriormente i titoli del debito estero che, successivamente, vennero usati per acquistare le aziende che durante il processo delle privatizzazioni vennero cedute a buon mercato, mentre Fmi e Banca Mondiale facevano da sponsor di questo processo presentato come un sanatotum. La cosa sorprendente fu che una volta iniziato il processo e terminati i negoziati per la ristrutturazione del debito, Brady lasciò il governo e riapparve alla testa di una finanziaria, la Darby (acronimo del suo cognome), che si impegnò ad acquistare le aziende privatizzate, contrattando con i governi che fino a poco prima avevano negoziato il suo famoso piano.

Spesso si tende a stigmatizzare la corruzione dilagante in vari governi latinoamericani di quegli anni e, frequentemente, degli attuali. Il che è giusto. Non andrebbe però mai dimenticato che dietro un corrotto c’è quasi sempre un corruttore. L’ultima denuncia in ordine di tempo riguarda la tedesca Siemens AG, che ammise di aver pagato mazzette per vincere, prima, la licitazione della confezione dei documenti di identità in Argentina, e poi per evitare che si rescindesse il contratto. 
 
Fatte queste precisazioni, va detto che in questi casi vanno analizzati sia i princìpi che le forme e successivamente gli strumenti utilizzati. In merito alle forme, lo riconosce lo stesso governo spagnolo, esiste una grande differenza tra il caso argentino e quello boliviano. Il governo di Evo Morales aveva annunziato da tempo la sua intenzione di procedere all’espropriazione di una azienda considerata strategica e vi è stata una negoziazione culminata col consenso di entrambe le parti in merito all’indennizzo.
 
Non si può dire lo stesso della decisione del governo argentino che, nel giro di quattro mesi, è passato dai complimenti per alcune decisioni di Repsol alla espropriazione tout court. E qui emerge una prima nota dolens della quale l’esecutivo di Buenos Aires fa grande fatica a prendere coscienza, un principio basilare in materia di rapporti internazionali: non si possono curare le relazioni internazionali esclusivamente in base alle situazioni di politica interna. La decisione del governo di Cristina Kirchner si appella a un fattore interno condito di epica nazionalista in un momento per niente facile del suo mandato, costellato di scandali e di evidente inefficienza.
 
Il nazionalismo sulla questione Ypf e sulla questione delle Malvine ha dato un po' di respiro al suo governo. Ma i temi di fondo restano senza risposta. Innanzi tutto, dopo otto anni di politica energetica latitante e insufficiente, viene espropriato un pacchetto azionario di un'azienda che copre meno del 40 per cento del mercato energetico interno. Non si sa da dove salteranno fuori i circa 20 miliardi di dollari necessari per realizzare ricerche e lo sfruttamento di altri di nuovi giacimenti. E qui veniamo al tema degli strumenti utilizzati: la legge approvata non chiarisce come sarà possibile trarre vantaggio da questa decisione.
 
L’improvvisazione, la scarsa memoria (è grave che i bilanci di Ypf siano stati approvati sistematicamente dal governo in questi anni: eventuali obiezioni alla diminuzione degli investimenti da parte di Repsol erano da muovere in tale sede) e lo sguardo permanente alle questioni interne di partito sembrano essere la caratteristica di questo primo anno di governo di Cristina Kirchner (nella foto), che non pare iniziato sotto buoni auspici. Non sarà certo questo che le permetterà di superare il momento di stasi economica nel quale sembra sia entrata l’economia argentina. Il business del petrolio trova sempre partner disposti a rischiare, dato che i margini di guadagno sono altissimi. Ma l’Argentina non può permettersi di logorare ulteriormente la sua immagine internazionale.

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