Navalny, purché la morte favorisca la libertà
Per un decennio Alexei Navalny ha guidato l’opposizione politica nella Russia di Vladimir Putin. Scomparso nella “casa di rieducazione” siberiana nel quale era “ospitato”. Il decesso del dissidente è stato annunciato dal Servizio penitenziario federale russo: Navalny, 47 anni, avrebbe perso conoscenza dopo la passeggiata quotidiana nella prigione di sicurezza dell’Artico russo dove era stato trasferito dalla fine del 2023. La sua ultima apparizione pubblica risale solo a giovedì 15 febbraio, quando il dissidente era apparso durante un processo in udienza pubblica, in collegamento video, apparentemente sorridente dietro le sbarre. Il comunicato dice solamente che «le cause della morte sono in corso di accertamento». Le veline alla tv russa parlano di una non meglio precisa embolia.
Commenti indignati da parte delle autorità degli Stati Uniti e dell’Unione europea. La morte improvvisa del più ferreo oppositore di Vladimir Putin, a poche settimane dalle elezioni, solleva perplessità e ogni sorta di sospetto. Kamala Harris, vicepresidente Usa, commenta così la morte di Navalny: «È un altro segno della brutalità di Putin. Qualsiasi cosa dirà Mosca, la Russia è responsabile della sua morte». Gli fa eco con le stesse parole il segretario di Stato Antony Blinken: «La Russia è responsabile», aggiungendo che «la morte di Navalny è la dimostrazione che il sistema di Putin è debole e marcio». Anche l’Europa attacca forte, con Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea: «La morte in carcere del dissidente è un triste promemoria di ciò che rappresentano Putin e il suo regime», sottolineando come la contestazione interna sia il vero spauracchio del presidente russo. In Italia Giorgia Meloni ha dichiarato: «La morte di Alexei Navalny, durante la sua detenzione, è un’altra triste pagina che ammonisce la comunità internazionale. Ci auguriamo che su questo inquietante evento venga fatta piena chiarezza».
Non c’è da sorprendersi della fine misteriosa di Navalny. Da tempo siamo abituati ai metodi vetero-KGB, oggi neo-FSB, di sbarazzarsi delle personalità scomode che rischiano di intralciare il lavoro dello zar delle Russie, Vladimir Putin, che Biden ha definito, come si ricorderà, «macellaio». La storia della Russia zarista, poi dell’Unione Sovietica e infine dell’attuale Federazione russa è costellata di assassini, avvelenamenti, sparizioni, incidenti ferroviari e aerei, defenestrazioni mascherate da suicidio.
Sappiamo pure che il sangue, del corpo e dell’anima, dei dissidenti alla fine porta un vantaggio per le libertà: si prendano i sacrifici, a diverso titolo e con diverse modalità di Pavel Florensky, di Aleksander Solgenitsin, di Andrej Sakharov, di Anna Politkovskaja e di centinaia di altri “martiri della libertà”. Ma i tempi di maturazioni di questi frutti non sono mai conosciuti in anticipo, e non si sa mai in anticipo la durata della “tregua”, vista la natura di una Russia che vive della convinzione di essere portatrice di una missione universale, politica, religiosa. Qualcosa di “escatologico” esiste nell’anima russa, e chi la conosce bene sa quanta ricchezza sia nascosta in un popolo di altissimo profilo umano e intellettuale, artistico e strategico. Purtroppo, assai di frequente, i governi russi prendono scorciatoie pericolose per avvicinarsi a tali orizzonti, in questo favoriti da un Occidente che ha le sue responsabilità, quando nega il diritto di un popolo come quello russo ad avere una vocazione che supera i suoi confini (cosa che per il proprio caso, sia statunitense che europeo, è invece ammesso), arrivando allo scontro piuttosto che all’incontro, al muro contro muro invece che al dialogo. Siamo in guerra fredda, lo sappiamo: c’è solo da auspicare che la morte di Navalny fertilizzi le relazioni internazionali tra i due polmoni dell’Europa. Il che non avverrà domani, purtroppo.