Naufraga la SuperLega dei ricchi: il pallone rotola ancora

Si è sciolto come neve al Sole, nel giro di pochi giorni, l’annuncio di una fantomatica SuperLega europea di “eletti” senza meriti sul campo. Decisiva la sollevazione di tifosi e, di conseguenza, soprattutto di sponsor e politici. Ma i problemi restano.
Florentino Perez, presidente del Real Madrid e della SuperLega (AP Photo/Borja B. Hojas)

Le reazioni immediate
Sebbene formalmente esista ancora una lista di 12 componenti della Superlega dalla quale queste non si siano ancora giuridicamente sfilate, il progetto è stato sostanzialmente ritirato sul nascere. Dopo il comunicato di mezzanotte del quale avevamo subito dato conto la scorsa settimana, la fantasmagorica idea è durata circa 48 ore. Ma andiamo con ordine. In primis, ha perso i pezzi a causa di una sollevazione popolare che ha preso corpo in particolare nel Regno Unito, cavalcata immancabilmente da Boris Johnson. Se alla domenica notte della settimana scorsa erano ben sei le compagini della Premier League “iscritte” alla nuova confraternita elitaria del Pallone 4.0, nel giro di due giorni rimanevano sì e no una e mezzo, con tanto di mortificate scuse. Emblematici i casi del Chelsea e del Liverpool: nei pressi dello stadio “Stamford Bridge” erano stati migliaia, in poche ore, i tifosi a protestare contro “la morte del loro club”, come del resto davanti al mitico Anfield Road, dove i giocatori dei Reds hanno scritto congiuntamente la loro contrarietà alla SuperLega insieme ai tifosi, con un certo esemplare coraggio anche sul piano professionale. Le due società hanno subito ritrattato, vedendosi poi seguite da altre. A prendere posizione bocciando la proposta, erano stati poi, oltre a tutte le federazioni calcistiche nazionali, tifosi e leader politici tra cui Macron, Draghi e Letta.

Il pallone sarà sporco, ma rotola ancora
Nel nostro Paese non ci si ribella neanche se si armano di bombe i terroristi in Medio Oriente, ma si sa che, come disse Winston Churchill, «gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio». Soprattutto sui social network, se non altro, visti anche i tempi di pandemia, lo sdegno ha fatto da padrone. Ha fatto pensare la rabbia di Paolo Maldini, dirigente e bandiera del Milan, che ha fatto sapere «non sapere nulla del progetto lanciato». Hanno fatto riflettere in particolare le parole di Antonio Conte, tecnico della stessa capolista Inter, una delle 12 “congiurate”, che ha parlato di «fine dello sport se salta la competizione sportiva tra le squadre», ma soprattutto di Giampiero Gasperini, tecnico di uno degli esempi più luminosi del calcio a livello ormai mondiale: l’Atalanta: vivaio di tecnici e giovani eccellenti da decenni, stadio di proprietà, bilanci perfettamente in ordine, fidelizzazione della città di Bergamo e una gestione continuamente in crescendo con tanto di protagonismo ormai persino in Champions League. «Lunedì scorso pensavo fosse finito tutto – ha dichiarato ai colleghi di Sky Sport: – cosa giochiamo a fare noi, mi sono detto, se le qualificazioni non contano più nulla? Che senso ha Atalanta-Bologna se non conta per cosa giochi e dove arrivi? Perché se alcuni grandi club non sanno gestire il denaro, i loro debiti devono essere pagati da tutti?».

Andrea Agnelli, presidente della Juventus e vicepresidente della SuperLege (Foto LaPresse – Fabio Ferrari)

La fine di “quella sporca dozzina”, tra debiti e figuracce?
Morale della favola, di “quella sporca dozzina”, prendendo in prestito il titolo di una storica pellicola di guerra del ’67 firmata Robert Aldrich, sono rimasti sì e no in quattro: Milan, Juventus, Barcellona e Real Madrid. In testa, a incaponirsi pervicacemente difendendo ancora la proposta, i “presunti” vertici rappresentativi, Florentino Perez, presidente del Real Madrid, e Andrea Agnelli, presidente della Juventus. Al di là del tonfo in borsa del titolo Juventus ad esempio, resta da capire perché attaccare il sistema di cui si fa parte quando nello stesso sistema, retto solo dalla passione dei tifosi/consumatori che non seguirebbero comunque, vi sono molti esempi virtuosi, oltre la citata Atalanta.

I modelli esistenti, possibili e vincenti
L’azionariato popolare per il 75% del Bayern Monaco, campione uscente d’Europa, con uno stadio splendido e redditizio come l’Allianz Arena, rappresenta un modello eccellente anche sul piano della gestione dei bilanci. E dovrebbe pagare per tutti dopo decenni encomiabili? Oppure l’Ajax di Amsterdam, storica fucina di talenti, con bilanci perfetti e un calcio fatto di studio e talento, con tanto di successi europei, dovrebbe forse pagare per tutti? Se davvero si vuole metterla sul piano del business, si tenga presente che, in economia, chi fallisce va a casa. Non chiede di cambiare le regole quando ha sbagliato investimenti, mentre altre aziende virtuose vanno avanti. Piuttosto, il vizioso cerchi di adeguarsi al virtuoso, altrimenti non vi saranno mai soldi in grado di colmare malegestioni. Tutta da decifrare poi la sparata di qualcuno dei “congiurati” sulle giovanissime generazioni che «non reggerebbero 90 minuti»: meglio allora trasmettere loro che il grande sport non è più competizioni anche tra impari? Che è solo un club per ricchi cui si accede per rango e rendita e non per merito?

Ma i problemi restano
Nel mezzo, l’avviso, con tanto di espressioni poco misurate di contorno, dello sloveno Aleksander Ceferin, presidente dell’Uefa: «chi non esce dalla Superlega è fuori dalla Champions», senza contare ulteriori sanzioni nei rispettivi campionati. Ora, l’UEFA non è un olimpo di santità, ma innanzitutto un gestore a tratti anche monopolistico del grande calcio, federazione di federazioni. E’ sotto gli occhi di tutti ad esempio l’infittirsi di calendari che spremono come limoni i giocatori, per cedere alle ricche offerte televisive: i club investono, i giocatori si infortunano o vanno in nazionale, ma l’UEFA guadagna comunque dal grande spettacolo senza “spartire la torta”, sostengono i 12 comprensibilmente. Bisogna tenere presente che i 12 “aristocratici” siano i più seguiti al mondo e anche i più indebitati: si parla di circa 7 miliardi di euro complessivi di deficit.

Il punto nodale è che la mossa delle 12 non sia stata certo improvvisata, ma gravemente sbagliata su più piani. «Il calcio non è un’economia come altre» ha ricordato Carlo Cottarelli ai colleghi di Sky. C’è dentro un coinvolgimento popolare, emotivo e storico inquantificabile. Che impatta moltissimi indotti ma si regge sulla competizione sportiva, quella che sarebbe venuta a mancare eliminando qualificazioni e confronti. Piuttosto, potrebbe essere finalmente l’ora per affrontare lo strapotere dei procuratori milionari che dettano legge, oppure inserire un tetto salariale che, come nella NBA, accresca il valore competitivo generale andando poi a premiare rendimenti e vittorie. I problemi vanno affrontati al tavolo della negoziazione, ma partendo da un unico denominatore: la “terapia” SuperLega ucciderebbe il paziente e i medici stessi, non curando nessuno.

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