Nasima Aktar e più di altri 270mila rohingya
In Asia non c’è solo il problema dei dati quello della Huawei… Ci sono state altre notizie, in queste ultime settimane, molto più importanti, che sono state passate in secondo o terzo piano. Penso a quelle sui profughi in tutto il mondo, come per esempio a proposito dei rohingya.
Una bella notizia e importante, che tocca direttamente la vita di tanti profughi ammassati al confine tra Myanmar e Bangladesh, è stata che finalmente, 15 giorni fa, 270.348 rohingya sono stati registrati presso l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite e posseggono ora una vera e propria carta d’identità, plastificata, con foto, nome, cognome e Paese di origine: Myanmar.
Sì, perché il posto dove sono nati, cresciuti e da dove sono stati scacciati (i più fortunati) è proprio il Myanmar, che non solo non vuole riconoscerli, ma nemmeno riaccoglierli indietro, nelle loro terre. Al di là delle tante dichiarazioni ufficiali e rassicurazioni dal governo di Naypyitaw, i responsabile militari e delle milizie che hanno perpetuato la pulizia etnica nell’agosto del 2017, sono ancora tutti al loro posto di comando e non intendono andare altrove, se non saranno costretti a farlo dalla comunità internazionale. Come il capo delle forze armate del Myanmar, generale Aung Hlain, che si dice sia il principale responsabile della catastrofe dei rohingya. Naturalmente non l’unico.
Le Nazioni Unite e la Comunità internazionale, da più parti auspica che s’inizi una vera e propria inchiesta con la collaborazione delle forze armate del Myanmar, il Tatmadaw, e che questi consegni i veri responsabili alla giustizia internazionale. Tutto ciò sembra ancora molto lontano e improbabile.
Ma, tornando ai nostri rohingya, le cifre parlano chiaro e possiamo ricavarle dal sito ufficiale dell’Unhcr: più di un milione di rifugiati rohingya sono nei campi, di cui circa 723 mila arrivati dopo l’agosto di due anni fa.
Nei campi profughi in Bangladesh, e precisamente a Kutupalong, ci sono rifugiati in condizioni disperate, con la stagione delle piogge ormai alle porte. Intanto si prosegue con l’identificazione dei rifugiati, in quanto la carta d’identità contiene sia le impronte digitali che la scansione dell’iride, in modo da avere una banca dati precisa e incontestabile a livello internazionale. «Avere una carta d’identità è un diritto umano basilare», ha affermato l’Alto commissario per i diritti umani, Filippo Grandi, in una recente visita a Coxàs Bazar.
«Dobbiamo ricordare che molte di queste persone, nella loro vita, non hanno mai avuto una identificazione. Perciò, per loro, è un incredibile passo avanti verso una vita più dignitosa». L’identificazione è molto importante per i gruppi di persone più vulnerabili, come le donne, i bambini e i disabili. Il documento è in lingua bengalese e in inglese, in modo che possa essere riconoscibile e letto dalle autorità locali e porta entrambi i logo, i simboli: del governo del Bangladesh e il logo delle nazioni unite. Ma il paese di origine è chiaro per tutti coloro che leggono: Myanmar!
«I profughi capiscono che tutto questo non ha che fare col loro ritorno forzato», afferma Nurul Rochayati, un ufficiale delle Nazioni Unite che si occupa della registrazione. «Tutto questo è per la loro protezione locale e per stabilire il loro diritto a ritornare. E ritorneranno quando sarà sicuro, quando ciò potrà essere fatto con la massima sicurezza e dignità». Ma quando avverrà che Nasima Aktar e gli altri 270.347 possano tornare in patria? Non lo sappiamo.