Napoli tra illegalità e riscatto

Gabriele è un bambino bellissimo. Ha 2 anni e due genitori in gamba che gli vogliono molto bene e gli insegnano tante cose. Se gli chiedi chi ha costruito la casa sulla cascata ti risponde Wright, chi ha scritto la Divina Commedia, ti dice Dante. Sa che due più due fa quattro e quattro più quattro otto. Vive a Scampìa. Andrea (il nome è di fantasia) ci ha vissuto fino a qualche anno fa. Adesso ha 13 anni. Quando ne aveva 7, tornando da scuola alle tre del pomeriggio, ha visto in diretta un omicidio. Da allora la sua vita è cambiata e per lui si è resa necessaria l’assistenza psicologica. La sua famiglia si è trasferita al Vomero per offrirgli un’assistenza meno blindata. Siamo a Scampìa, quartiere della periferia nord di Napoli, teatro in questo periodo di omicidi a ripetizione. Una faida all’interno dello stesso clan per problemi di riorganizzazione ci spiega il magistrato Giovanni Corona, della Direzione distrettuale antimafia, che ci fa un quadro preciso della malavita a Napoli dove il territorio è tutto sotto controllo. Il Bronx, il supermercato della droga, il ghetto dove è stata confinata una buona parte della criminalità organizzata di Napoli. Così è definito Scampìa dai suoi stessi abitanti. Quaranta, cinquanta, ottanta mila, non si sa bene perché qui anche al censimento sfugge la verità. Una delle tante città di Napoli dove vive chi non può permettersi di abitare altrove sognando prima o poi di andarsene. Dalla stazione metro di Piscinola, un po’ più alta rispetto a Scampìa, il panorama è tristemente uniforme: palazzoni, palazzoni e ancora palazzoni. Scorgi subito le famigerate vele, casermoni dormitorio che nell’idea dell’architetto Di Salvo che le progettò verso la fine degli anni Sessanta dovevano riprodurre lo spirito del vicolo, del buon vicinato. Di fatto in essi si sono trovati a convivere e, spesso, a sopravvivere, sradicate dai quartieri di origine (soprattutto dopo il terremoto dell’80), famiglie semplici ed oneste con altre dedite alla delinquenza. Nel corso degli anni poi nei piani interrati si sono istallate abusivamente decine di famiglie che vivono con sei, sette figli in una stanza, senza acqua, senza servizi, né corrente. Le pareti trasudano degrado, le finestre mostrano i segni dell’abbandono. Tanti i vani destinati a deposito della droga. Sullo stesso territorio sorgono però anche parchi privati costruiti in cooperativa ed abitati, prevalentemente, da famiglie di insegnanti, impiegati, commercianti… Oasi di vivibilità – le definisce Tina, cancelliere presso il Tribunale – protette da cancelli elettronici che ergono, inevitabilmente, una sorta di barriera invisibile ma reale, con l’esterno. Girando per Scampìa si vede una città che sta in casa, di sera come in pieno giorno. Il quartier generale di Ciruzzo ‘o milionario, il boss del luogo, è un fortino che fa impressione. La gente non solo ha paura di uscire ma non ha molti motivi per farlo. Non ci sono luoghi di ritrovo, cinema, bi- blioteche, giardini pubblici frequentabili, negozi. Noi non viviamo la città, afferma Lucio che abita in uno dei parchi. La vita dei ragazzi e delle donne è molto difficile – ci dice Anna, insegnante -. Non possiamo camminare a piedi, i nostri figli non possono andare in giro da soli e noi facciamo le autiste. Chi esce per motivi di lavoro può ritenersi fortunata ma la maggior parte delle donne casalinghe vive nella depressione. I bambini, poi, anche a scuola subiscono forme di razzismo da parte degli abitanti degli altri quartieri, hanno vergogna di dire che vengono da Scampìa. Questo non è solo un deserto -, aggiunge Aurora, insegnante in pensione – ma sta diventando un cimitero. Le vede tutte le lapidi lungo le vie? È perché le nostre strade sono autostrade e di incidenti mortali ce ne sono tanti. E chi l’ha mai vista tutta questa polizia? In ogni caso non è solo per i morti ammazzati che la vita di tutti i giorni qui è pericolosa , sottolinea con amarezza Donato, giovane architetto. In effetti anche a guardarla solo dal lato urbanistico si capisce che il tasso di vivibilità è molto ridotto e questo non aiuta il rilancio della zona. Qualche anno fa – ci racconta Franco, sempre molto attivo nel quartiere -, lessi che a Palermo avevano lanciato l’operazione Peter Pan grazie alla quale se dei bambini si trovavano in pericolo potevano chiedere aiuto a quei negozi che esponevano un marchio di riconoscimento. Pensai che sarebbe stato bello importare questo tipo di azione ma subito dopo mi resi conto che qui non sarebbe stato possibile. Le nostre vie non sono fiancheggiate da negozi, uffici, luoghi di incontro. È difficile poter avere l’occhio sulla strada da dentro un palazzone. Tre anni fa il rettore dell’università aveva dichiarato che qui sarebbe venuta la facoltà di agraria. In effetti è scomparsa prima ancora di nascere. Figurarsi se la famosa facoltà del palazzo reale di Portici si sarebbe potuta trasferire a Scampìa. E poi sarebbe stato necessario allestire prima dei servizi, ma qui nessuno vuole venire ad aprire un’attività. Qualcosa negli anni è cambiato: è venuta l’Asl, c’è una sede dell’Inps, sono state completate alcune scuole, è stato aperto un mercatino, una piscina comunale, alcune vele sono state abbattute e sostituite da agglomerati più a misura d’uomo… Uno studio in fase di pubblicazione, realizzato dall’assessorato alle periferie del comune di Napoli, ne traccia un quadro abbastanza dettagliato. Ma, con grande rammarico, bisogna riconoscere che la speranza a Scampìa è una conquista che si scontra quotidianamente con l’evidenza dei fatti. Lo spaccio e il consumo della droga sono sotto gli occhi di tutti. In una macelleria si vendono siringhe, alcuni altarini di padre Pio fanno da distributore. Li vedi, questi giovani, che vanno a bucarsi dietro la palizzata di un cantiere. Giovani che vengono da tutta Napoli e non solo. E la droga è l’unica attività economica – ci dice don Fabrizio -, difficile pensare che possa essere sostituita. Romano di origine, gesuita, don Fabrizio da tre anni è parroco di Santa Maria della speranza. È stato anche in Africa; ma qui è peggio – sottolinea -, perché lì la gente vive felice anche con una sola camicia, non ha altri modelli. Qui invece la gente trascorre molto tempo davanti al televisore che ostenta modelli consumistici e ricerca della felicità a tutti i costi. E quand’anche comincia a lavorare, non sa usare il denaro, per cui ha 20 e spende 40. Ci sono persone che per fare un matrimonio s’indebitano per la vita, ricadendo poi nel giro dell’usura. Tanti dei nostri bambini hanno padre e fratelli in carcere, respirano l’illegalità dalla nascita. È diffuso il disagio psichico, ci sono tanti suicidi, molte ragazze-madri abbandonate. Eppure quello dell’illegalità non è un problema genetico, è un problema di cultura. Da quando sono qui – riprende – ho cercato di stare in mezzo alla gente, di proporre alle persone una religiosità non solo esterna, di aiutarle a crescere culturalmente, di metterle insieme per fare delle esperienze positive. Anche per questo i gesuiti collaborano con Comune, Provincia e Regione nel gestire dei programmi di formazione professionale. Se i cristiani non rimangono isolati – conclude don Fabrizio -, sono una grande chance per i cittadini di Scampìa tanto disponibili alle proposte di aggregazione. Chi ha una lunga esperienza qui è padre Vittorio, parroco della Risurrezione. Che si sia consumato per la propria gente lo capisci subito, che l’abbia difesa talora sfidando le autorità te lo raccontano tutti. Io conto molto sui laici impegnati. Qui ne abbiamo 300. Tanti di loro vivono un rischio quotidiano, sono oggetto di insulti, di minacce, eppure vanno avanti con grande fedeltà al vangelo. In questi 36 anni ho visto i giovani andarsene e non ritornare più. Non abbiamo molto da offrire e sembra non resti che dir loro fujtevenne, andatevene. Eppure se su Scampìa si riuscisse ad investire le forze migliori della società forse una speranza ci sarebbe ancora. E uno dei diaconi permanenti ci racconta scene di vita quotidiana. Come quell’episodio in cui venne chiesto alla parrocchia (senza risultato) di abbassare il volume delle campane perché impediva la comunicazione fra malavitosi. Qui infatti, quando sta arrivando la polizia, le sentinelle gridano: Maria. E mentre in chiesa si celebra, fuori si spaccia. Fin qui Scampìa. Un quartiere del tutto particolare, dove il degrado sociale e culturale tocca punte davvero alte. Eppure, a dispetto di tutto, è un terreno adatto – come ci viene detto più volte – a proposte e iniziative costruttive. Non è comunque il degrado l’emblema di Napoli. Lo sguardo su questa città non può essere quello su una brutta cartolina che suscita spavento o pietà, ma quello su una parte di umanità ferita, dove tanti non si danno per vinti, impegnandosi per far di Napoli quella nuova città che dice il suo stesso nome, Neapolis. E se, da un lato, c’è da affrontare la grande disoccupazione che, stando allo studio dell’assessorato alle periferie, affligge il 42 per cento della popolazione cittadina, non meno importante appare un rilancio culturale capace di offrire un progetto di vita a tanti. Da qui la necessità di mettere sempre più in rete, moltiplicare, amplificare le esperienze positive già in atto, il lavoro sotterraneo a tutti i livelli, le tante Napoli indignate e laboriose. Il nostro viaggio alle pendici del Vesuvio è solo cominciato. IL SINDACO IERVOLINO SOLO INSIEME CE LA POSSIAMO FARE Èsera inoltrata quando veniamo ricevuti a palazzo San Giacomo, sede del municipio di Napoli. Il panorama che si può ammirare dall’alto è incantevole: le pendici illuminate del Vesuvio rischiarano il golfo della città. È la Napoli bella, la city come qui la chiamano, quella che dà sul mare. È una città dove convive tutto il bene possibile e tutto il male possibile – esordisce il sindaco Rosa Russo Iervolino -, cioè una generosità e un’inclinazione naturale alla comunità e una tradizione di organizzazione malavitosa quale è la camorra. Per questo mi sembrano importanti due cose: non assolutizzare il negativo e non scoraggiare chi è in prima fila per cercare di riportare la città a livelli di vita più umani e civili. Evidenziare il negativo sarà anche responsabilità dei media. Però la gente è scoraggiata. Ci sono due motivi per i quali la gente è scoraggiata: perché a Napoli ognuno tende ad assolutizzare la propria situazione di vita e perché veniamo bersagliati di continuo da una campagna mediatica che fa di Napoli la Kabul italiana… A Scampìa, ad esempio, c’è anche gente che combatte fino in fondo per la legalità ma non trova spazio nell’informazione. Chi vuole descrivere la verità, come va a cercarsi il ragazzo che si buca così vada a cercarsi il positivo. Attraversando la città dalla periferia al centro si vede chiaramente che Napoli è tante Napoli… Il primo divario c’è fra chi lavora e chi non lavora. All’interno di quest’ultima categoria ne troviamo poi altre due: chi cerca di sopravvivere onestamente (le donne che vanno a fare i servizi nelle case, i ragazzi che marinano la scuola per piccoli lavori) e chi pur non lavorando sopravvive benissimo perché spaccia droga o traffica armi. Va tenuto conto anche di un’altra cosa che ritengo comunque positiva: a Napoli queste differenze appaiono di più perché non c’è distacco fra centro e periferia. Questo permette a tutta la città di non dimenticare né ghettizzare la sua parte che ha problemi. E come risponde l’amministrazione cittadina? Il problema di fondo è creare posti di lavoro produttivi, non clientelari.Abbiamo individuato due grandi aree di sviluppo: una è Bagnoli dove si vuole riconvertire tutta l’area dell’ex Italsider, facendone un quartiere di servizi, con sale congressi, alberghi, scuole, un gran- de parco. Sull’area orientale poi abbiamo in programma una riqualificazione del territorio con la costruzione di nuove sedi universitarie, un porto turistico per 700 barche, una nuova viabilità. Inoltre, puntiamo tantissimo sulle scuole. In questi ultimi tre anni ne abbiamo inaugurato 45 e questo significa un investimento sul futuro dei ragazzi. Infine, la valorizzazione dell’enorme patrimonio culturale della città che può essere fonte di sviluppo e di ricchezza . Esiste una qualche concertazione fra le varie istituzioni? Sì ed è strettissima. Regione, provincia e comune camminano decisamente insieme. Proprio in questi giorni stiamo facendo il lancio operativo dei comitati circoscrizionali per la legalità, la sicurezza e la solidarietà. Ne fanno parte non solo le autorità civili e di pubblica sicurezza ma anche le associazioni, la scuola, i parroci… per vedere cosa si può fare in ogni territorio specifico. Importante è inoltre la grande collaborazione del volontariato. Ma è davvero possibile recuperare un rapporto di fiducia fra i cittadini e le istituzioni? Quello si recupera subito. Così come i cittadini di Napoli sono critici, direi giustamente, altrettanto sono immediatamente generosi e fiduciosi nel vedere quello che va. Il mio impegno con la giunta è quello di lavorare, lavorare, lavorare, per produrre buoni risultati . IL PROCURATORE GENERALE GALGANO RECUPERARE L’IMPULSO IDEALE Magistrato da 43 anni Vincenzo Galgano si è sempre occupato di diritto penale. Di Napoli conosce il volto elegante e quello degradato, la vita difficile di chi non guarda il mare. Come si fa a garantire l’esercizio della giustizia a Napoli? Si tratta delle attività normali che tutte le forze dell’ordine svolgono, soverchiate però dalla natura complessa e dal numero dei problemi che si debbono affrontare. Ci troviamo di fronte alla grande criminalità, quella cosiddetta organizzata, così come ad una diffusa illegalità caratterizzata dalle violazioni dei precetti penali, da piccole rapine ed estorsioni, furtarelli, violenze di vario tipo, manifestazioni di aggressività quotidiane. Inoltre abbiamo degli organici insufficienti laddove invece sarebbe necessario che il personale fosse completo in maniera stabile. Io penso che a cominciare dalle selezioni, bisognerebbe dare spazio a gente motivata. Sia quelli che si occupano del settore amministrativo sia i magistrati si trovano di fronte a un lavoro duro, oscuro, non gratificante. Devono avere quindi una spinta ideale che ne giustifichi i sacrifici. È quest’impulso ideale al quale dobbiamo aggrapparci per adoperarci a migliorare la situazione . Bisogna rassegnarsi a convivere con questa criminalità o si può sperare in qualcosa di diverso? Dobbiamo innanzitutto riacquistare il sentimento morale della nostra responsabilità verso gli altri, quindi vivere come partecipi di un tutto e non come individui che pensano solo a sé stessi e al proprio utile particolare. Ciò detto, bisognerebbe poi avere un sistema normativo che consenta, ad esempio, alle forze dell’ordine, in situazioni di emergenza, di intervenire sia per prevenire il reato, sia di accertare con maggiore puntualità quello che è avvenuto. Si tratta cioè di semplificare il nostro macchinosissimo e complicatissimo processo penale, una vera e propria negazione di sé stesso. La lotta alla criminalità ha avuto dei risultati a Napoli? Certamente, abbiamo avuto dei fenomeni che prima erano inimmaginabili come il pentitismo e la messa in atto di meccanismi processuali sempre più sofisticati. Ci sono i primi segni di una volontà di riscatto perché quando la sopraffazione, la disonestà raggiungono limiti intollerabili, piano piano si mette in moto un meccanismo reattivo. Accade anche nelle grandi organizzazioni criminali che ogni tanti ci siano delle ribellioni al potere assoluto. Perché non dovrebbe avvenire nella società civile?. È necessario agire più sul fronte della repressione o su quello della prevenzione? Su entrambi e con uguale impegno, ma soprattutto credendo in quello che si fa, agendo per ottenere dei risultati e non in modo egoistico e burocratico.

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