Namastè, saluto il divino che è in te
Namastè significa letteralmente saluto il divino che è in te. Per noi occidentali è particolarmente difficile comprendere quanto possa essere autentico, per i nepalesi, questo loro tradizionale saluto. La religione è il percorso della vita, è ciò che unifica tutti gli aspetti del nostro vivere ci spiega con naturalezza la signora che ci ospita nel suo alloggio a Namche, il piccolo centro commerciale della valle del Khumbu, ai piedi dell’Everest. Anche nella sua casa la mansarda è trasformata in un semplice, ma armonioso e suggestivo luogo di culto, pervaso da un penetrante profumo d’incenso. Per il buddhismo la felicità dipende dallo spirito. Le parole di Ngawang Tenzin Zangbu, abate del monastero di Tengboche, cuore spirituale per gli sherpa, ci aiutano a capire: Uno spirito aperto, libero, pacifico porta molto beneficio a sé ed agli altri. Il suo sorriso, la serenità che emana dal suo volto, la compostezza del suo corpo lo confermano. Attorno a questo serafico uomo di 70 anni si sono accovacciati, come lo siamo noi per ascoltarlo, migliaia di persone, nepalesi e turisti, per chiedere consigli di ogni genere, per ottenere benedizioni, per sapere il nome da dare ad un figlio, o semplicemente per pura curiosità. Dietro le sue spalle, una piccola foto con dedica testimonia la visita dell’allora presidente degli Usa, Jimmy Carter.A 5 anni, dopo un sogno premonitore fatto da suo padre, un lama confermò che il bambino era un reincarnato del fondatore del monastero, preannunciando che la sua vita sarebbe trascorsa, da quel giorno, a Tengboche, dove, a 17 anni, avrebbe assunto il titolo di rinpoche, ovvero maestro di rango, visto che il termine significa il prezioso. Grazie a lui, questo monastero a 3870 metri di quota, che ospita oggi oltre 50 monaci, uomini, dai 7 agli oltre 80 anni, che compiono la scelta del celibato, è divenuto ben presto anche il centro culturale del popolo sherpa. Sherpa significa quelli venuti dall’Est, a conferma della loro migrazione dal Tibet, cominciata circa 600 anni orsono, a causa della difficile convivenza con i tiranni feudali.A guidarli in queste valli montagnose fu la preveggenza dei lama che predissero persino la tragica persecuzione del buddhismo tibetano ad opera dei maoisti. Sopravvissuti per secoli con le povere risorse dell’agricoltura d’alta montagna, da mezzo secolo il turismo himalayano consente alle famiglie del Khumbu di condurre una vita dignitosa: qui i bambini non chiedono l’elemosina, ma bon bon e pen, dopo aver scoperto che i turisti usano portare con sé caramelle e penne a sfera. Il continuo contatto con gli occidentali, ormai più di 20 mila all’anno in questa valle, sta tuttavia modificando inesorabilmente il loro stile di vita: i figli delle guide sherpa più pagate studiano nei college inglesi o americani e il consumismo bussa alle porte. Molti grandi alpinisti occidentali, primo fra tutti Edmund Hillary, dopo la prima salita all’Everest, hanno speso le loro energie affinché questo popolo conservasse le sue tradizioni, ma la migrazione verso la capitale, Kathmandu, è sempre più difficile da frenare. Nella metropoli, considerata oggi la più inquinata del mondo, la vita non per tutti si rivelerà un paradiso: cresciuta in 20 anni da 250 mila a 2 milioni e mezzo di persone, non garantisce a tutti una casa, mentre l’acqua, la corrente elettrica e le fognature non sono certo a disposizione di tutti. Eppure girando per le strade rumorose, quei vicoli caotici in cui si affollano i camion, i tempo, ovvero i piccoli tricicli usati come mezzo di trasporto, le biciclette ed una marea multicolore di persone, chiunque può rendersi conto della straordinaria operosità di questa gente. Ognuno trova qualcosa da fare, come quei venti manovali che abbiamo visto passarsi i mattoni di mano in mano in una casa in costruzione, anziché servirsi di una carrucola. Ognuno ha qualcosa da vendere, magari solo delle piadine fritte sulla porta di casa, o delle collanine da quattro soldi, o delle sciarpe di cachemire più o meno autentiche, ed occorre essere accorti a contrattare su ogni prezzo.Tanto chi vi offre la merce parla, dopo anni di turismo, incredibilmente l’italiano. Resta il fatto che nessuno chiede l’elemosina, né i turisti devono temere i borseggiatori nelle viuzze strette di Thamel. Anche in città la cultura della gente è intessuta profondamente con una genuina religiosità: in ogni angolo spunta un tempietto, dove recitare una preghiera o offrire del cibo ad un buddha o una divinità indu, le due religioni che convivono nel Nepal. Treragazzine, appena uscite da scuola, scherzano fra loro. Ad un tratto si ritirano in disparte, come da noi si farebbe per mandare un messaggino, ed avvicinandosi ad una statuetta colorata di rosso dai fiori che le sono stati offerti, si segnano di rosso la fronte, e via a scherzare di nuovo. Questa gente è una strana mescolanza di superstizione e buoni sentimenti scrisse il colonnello inglese Bruce durante la spedizione all’Everest del ’22. Ma viene il dubbio che ogni straniero qui veda solo ciò che vuol vedere, tanto è lontana la nostra mentalità. I richiami alla meditazione sono continui ed evidenti. Quel sentiero, che si copre in una settimana, fino alla base dell’Everest, è segnato dai cumuli delle pietre mani, tavole nere scolpite o dipinte di preghiere, poste ad una distanza fra loro sufficiente a non distrarsi dal divino ci spiegano. Su ogni ponte sventolano, perpetuando così l’orazione, i cavalli del vento, le piccole bandiere quadrate, dei cinque colori del buddhismo, dove il disegno di un cavallo è circondato di preghiere. Lo stipite d’ogni casa è rivestito del giallo arancio dei fiori intrecciati per l’offerta. I numerosi e piccoli mulini che sorgono nella valle non servono a macinare il grano, ma a far girare, giorno e notte, grossi cilindri in legno dipinti con preghiere. Sui sentieri non è raro sentire bisbigliare la dolce cantilena om mani padme um, accompagnato dallo scorrere fra le dita di un rosario di 108 grani. Qui è la preghiera più comune, un’invocazione ripetuta alla compassione e alla saggezza che vince il male. Questa appassionata e ricercata ripetitività della preghiera non lascia indifferenti, specie noi occidentali, che ormai di ripetitivo possediamo solo la pubblicità. QUESTIONE DI TERMINI E POST-CULTURA La parola è il principale mezzo di comunicazione ad ogni latitudine. Molte persone colgono ed utilizzano meglio dei vocaboli i gesti, i suoni, i colori… Un fatterello accadutomi mi ha fatto riflettere sulla nostra espressività. Avevamo da poco lasciato Khumjung, il villaggio più caratteristico del Khumbu, quando, in fila indiana, incrociamo una donna sherpa. Le donne del Nepal, sebbene la maggior parte di loro sia di estrazione modesta e povere economicamente, hanno una dignità che colpisce il visitatore. Il vestito, la pettinatura, il portamento bello e nobile. Anche quando trasportano pesi impressionanti sulla schiena. Notando la nostra lunga schiera, la signora si mette di lato per lasciarci passare, con le spalle contro uno dei due muretti che delimitano il sentiero. Come accade con la maggior parte delle persone che si incontrano in valle saluta e porge un bellissimo sorriso ad ognuno di noi che le sfila innanzi. Nel ricambiare il saluto, mi accorgo che tiene sul palmo della mano lo sterco di yak, già un po’ appiattito per essere essiccato al sole. Nei freddi inverni delle valli himalayane è il combustibile principale. A questa altitudine l’ossigeno comincia a scarseggiare, perciò si può capire il garbuglio di pensieri che hanno iniziato ad affollarmi la mente, mentre i passi continuavano a cercare il posto giusto dove posarsi. Mi è venuto spontaneo pensare quanto nella nostra (sic!) civiltà la materia fecale è presentissima nel linguaggio. Pare che la si possa sostituire con la maggior parte del vocabolario. Sostantivi, verbi, avverbi, tutto viene trasformato. Si urla agli altri e ci si autoimbratta per le occasioni mancate. Nel nostro mondo, dove c’è una presenza addirittura inquinante di saponette, detersivi, smacchianti, detergenti, sbiancanti e scaffali a perdita d’occhio di profumi, una parola che ricorre spesso è… La signora sherpa che ho visto nel sentiero era pulita, si è presentata decorosa con un prodotto prezioso che scalderà la sua famiglia in una serata del prossimo inverno. La nostra cultura avrà la sua post-cultura. Penso che sarà vera evoluzione ed emancipazione se sarà anche in comunione con i – cosiddetti – paesi in via di sviluppo, ed avremo occhi limpidi per umilmente imparare. Donato Chiampi