Nairobi, una città sotto assedio

In appena dieci giorni tre attentati hanno colpito la capitale del Kenya con morti e feriti. La gente chiede con insistenza che il governo ritiri le truppe in Somalia, anche se su mandato Onu
La città di Nairobi dopo l'attentato

I “matatu”, i colorati bus pubblici di Nairobi, sono saltati in aria su una delle strade principali che collegano la periferia al centro della città. Tikha road l’ho attraversata parecchie volte e in varie ore del giorno durante il mio soggiorno africano. A quella fermata la gente sembra più stazionare che partire, perché la calca non accenna a diminuire neppure appena un mezzo lascia la fortuita fermata, perché immediatamente un numero imprecisato si accalca per saltare sul successivo. Domenica 4 maggio quei “matatu” si sono colorati di sangue e di morte. Sei sono stati i passeggeri deceduti e circa cento i feriti, di cui alcuni in condizioni molto gravi, a seguito dello scoppio di due bombe all’interno dei mezzi di trasporto. Attendevamo due amici domenica pomeriggio, ma non arrivavano, cosa insolita perché molto puntuali. Anche loro si sono trovati a pochi minuti di distanza dall’esplosione a percorrere quel tratto di strada. Hanno visto le autoambulanze, la polizia, la benzina sull’asfalto che veniva ripulita, la tragedia della gente.

La città continua a sentirsi sotto assedio. Solo quindici giorni fa un attentato alla sede della polizia nel quartiere somalo aveva provocato altri morti, ma soprattutto aveva generato paura e malcontento. Al Shabaab,appendice somala di al-Qaeda ha lanciato chiari avvertimenti: se il governo non ritira le truppe keniote dalla Somalia gli attentati continueranno. Il Kenya ospita nel suo territorio oltre un milione di profughi somali divisi in quattro campi e altrettanti vivono in uno dei quartieri della capitale. La presenza in territorio somalo, secondo le dichiarazioni del governo, si associa a quella degli eserciti di Uganda e Burundi che sotto l’egida dell’Unione africana e con la benedizione dell’Onu cercano di sostenere il governo di Mogadiscio contro i ribelli di al Shabaab, che proprio dai kenioti si son visti scippare la loro roccaforte, la città portuale di Chismaio nel Sud. Una sconfitta a cui si risponde con attentati, perché in contemporanea a quello di Tikha road altre due bombe sono esplose a Mombasa, meta turistica ambita per la sua posizione sull’oceano.

Uno dei tassisti che quella strada la percorre più volte al giorno, pur sereno perché «la sua vita è nelle mani di qualcun altro», insiste sulla necessità di lasciare l’impegno militare in territorio somalo: troppo rischioso, troppo pericoloso non solo per le vittime interne, ma anche per i danni all’economia e al turismo. «Se andiamo avanti così chi vorrà venire in un Paese costantemente minacciato?». La polizia ha messo a soqquadro le strade principali organizzando posti di blocco che prevedono sull’asfalto lunghe strisce di chiodi per impedire a chiunque un tentativo di fuga. La strada principale è stata chiusa e non pochi sono stati i disagi per i passeggeri che si spostavano su rotte internazionali.

Ogni pulmino che si avvicina a luoghi di interesse pubblico viene perquisito meticolosamente e i passeggeri vengono fatti scendere per un controllo, siano essi bianchi o africani. C’è un metal detector all’ingresso della cattedrale e non c’è messa o celebrazione che tenga, non serve presentarsi come coristi o fedeli: tutti vanno perquisiti prima di mettere piede sul sagrato. Lo stesso accade negli shopping center: controllo accurato delle borse, metal detector e anche perquisizioni. Del resto la memoria di quanto accaduto lo scorso settembre al Westgate è ancora una ferita aperta, come testimoniano i colpi kalashnikov di polizia e terroristi che crivellano muri e vetri del grande centro acquisti, dove per nove giorni decine di persone sono state tenute in ostaggio e circa 40 sono state uccise. Passando sul marciapiede tornano in mente le immagini di quella famiglia morta abbracciata, dei bambini venuti per una festa e deceduti, di quella donna che, affacciandosi alla finestra per chiedere aiuto, è stata colpita per errore dall’esercito.

Nairobi vuole voltare pagina e non è certo in atteggiamento di resa di fronte a queste continue violenze, anzi ha messo in campo tutti i suoi uomini a tutela della popolazione innocente. I feriti più gravi delle esplosioni di sabato sono proprio bambini. Lunedì è ricominciata la scuola, dopo le vacanze che per i Paesi dell’equatore sono proprio in questo periodo, e non mancava l’apprensione nel salire gli scalini in ferro di questi affollati mezzi di trasporto. Qualcuno si è aggiunto a quelli che a piedi percorrono lunghi tratti di strada, non certo per timore di esplosioni, ma perché non possono permettersi neppure i venti scellini keniani per un viaggio. Ora questi podisti forzati crescono di numero. Intanto si temono retate della polizia soprattutto nel quartiere somalo di Nairobi che, secondo fonti locali, sarebbe la base degli atti terroristici di questi mesi, molti dei quali sono proprio avvenuti qui, quasi a dimostrare un controllo del territorio superiore a quello del governo.

Questa è una delle zone più ricche di Nairobi e al contempo tra le più degradate: molti traffici illeciti avvengono in questo territorio, come ad esempio la rivendita di macchine rubate dopo opportuni trattamenti a matricole e colore della carrozzeria. In queste baracche c’è un via vai di giovani con in mano cilindri, alberi di trasmissione e vernici. Anche se a far lievitare i conti in banca sembra sia il denaro illegale proveniente dalle azioni di pirateria.

Da parte loro deputati e ministri si affrettano a precisare che il governo ha pronto un piano speciale di progressivo ritiro delle truppe perché, al momento, la Somalia non può essere abbandonata a sé stessa, ma neppure i keniani desiderano continuare a vivere sotto assedio. Il momento è davvero delicato.

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