Nagorno-Karabakh, ci risiamo

Ennesima riaccensione del focolaio tra armeni e azeri nella regione transcaucasica. Il timore è che i rispettivi sponsor, rispettivamente Mosca e Ankara, intervengano in una diatriba che si trascina dal 1994
Nagorno-Karabakh, Foto Ap

Il fuoco sotto la cenere. È così che potrebbe essere definito il conflitto che non si riesce a spegnere nella piccola regione del Nagorno-Karabakh, una enclave in territorio azero occupata dagli armeni. Dal 1991, anno in cui scoppiò una sanguinosa guerra che fece circa 30 mila morti, le scaramucce tra l’esercito azero e quello dell’autoproclamatasi repubblica del Nagorno-Karabakh sono quasi quotidiane. Ma sono almeno una dozzina gli scontri più gravi che si sono accesi in questi ultimi anni.

Nel corso di una visita dei luoghi nel 2009, ero stato portato in una lunghissima Mercedes nera a ispezionare il fronte armeno dall’allora presidente Bako Sahakyan: avevo visto trincee iper-militarizzate, anche se in fondo povere di mezzi, mentre nel cannocchiale di un capitano premuroso avevo scorto i “nemici”, gli azeri, che ci guardavano a loro volta, nemmeno trecento metri dividevano i due fronti. Ogni tanto in questi decenni sono saltati i nervi a qualche guardia di frontiera, è partito un colpo, due, tre, cento, mille…

E qualche soldato ci ha lasciato ogni volta le penne. Letta nel weekend scorso la notizia della ripresa degli scontri, mi ero giocoforza detto che anche questa volta tutto si sarebbe risolto con qualche ferito, forse qualche morto, e tutti sarebbero tornati nelle trincee a oliare i loro fucili. Ma questa volta gli scontri continuano, e si rischia grosso.

Perché? Uno sguardo alla storia passata è utile, così come alla storia che oggi si sta facendo. Finora, il conflitto nel Caucaso meridionale è rimasto circoscritto alle due ex-repubbliche sovietiche, cioè l’Armenia, Paese a maggioranza cristiana sostenuto da Mosca, e all’Azerbaijan, invece a maggioranza musulmana, più vicino alla Turchia: la lingua azera, per capirci, è del turco camuffato.

Nel 1921 Mosca spostò amministrativamente la regione del Nagorno-Karabakh, abitata in prevalenza da armeni, nell’Azerbaijan. Un’offesa mai dimenticata dagli armeni. Così, dopo il crollo dell’Urss, nel 1991 gli armeni della regione in un referendum osteggiato dagli azeri votarono per l’indipendenza. I separatisti, sostenuti e finanziati da Yerevan, presero possesso del territorio conteso, in una vera guerra che provocò quasi 30 mila morti e centinaia di migliaia di sfollati.

Da quel momento, il Nagorno-Karabakh reclamò la sua indipendenza col nome di Repubblica dell’Artsakh, con capitale Stepanakert. Uno Stato, però, che nessun’altro finora ha riconosciuto, nemmeno la stessa Armenia, seppur per motivi di prudenza. Nella regione caucasica vi sono altri staterelli con situazioni simili, come l’Ossezia del Sud o l’Abkhazia, o ancora più a ovest la Transnistria, tutte repubbliche create dal disfacimento del colosso sovietico. Nel 1994 fu raggiunto un precario cessate-il-fuoco per la mediazione di russi, francesi e statunitensi del cosiddetto “Gruppo di Minsk”, che doveva avviare negoziati di pace che in realtà non hanno mai trovato uno sbocco. Tra tutte le diverse violazioni del cessate-il-fuoco, la più grave è stata quella dell’aprile 2016, che aveva provocato circa 200 morti.

Stavolta la situazione appare più complessa, perché il conflitto mette di fronte, più di altre volte, i “padrini” di Azerbaijan e Armenia, rispettivamente Turchia e Russia. Le scaramucce del Nagorno-Karabakh sono state amplificate dal contesto internazionale che vede turchi e russi talvolta alleati (come nel “Gruppo di contatto di Soci”, con l’Iran, avviato per il conflitto siriano), ma più spesso avversari, come in Libia, dove Erdogan appoggia al-Sarraj e Putin, invece, sembra propendere più verso Haftar, o come nella regione di Idlib, in Siria, dove turchi e russi si trovano ormai su fronti opposti.

Stavolta ecco che l’Armenia denuncia l’arrivo nel Nagorno-Karabakh di contractor, cioè mercenari filo-turchi che verrebbero dalla Siria, mentre Baku avrebbe ricevuto una vera e propria flotta di droni di ultima generazione da Ankara. Erdogan si guarda bene dal confermare queste notizie, ma la sua amicizia col presidente azero Ilham Alijev è solida, al punto da fargli dichiarare che «la nazione turca si pone con tutti i suoi mezzi a fianco dei suoi fratelli e sorelle dell’Azerbaijan».

Sul fronte opposto, invece, Putin cerca di evitare un punto di non ritorno nel conflitto, visto che la stessa Mosca intrattiene non pochi affari con l’Azerbaijan. Se Mosca non ha nessun interesse a riaccendere una guerra nella regione transcaucasica, Ankara ha invece una strategia più portata ad accendere focolai un po’ ovunque (Libia, Siria, Grecia, confini marittimi attorno a Cipro…), sia per affermare la propria leadership regionale, sia per i consueti problemi interni del presidente Erdogan che vede crescere le fila dell’opposizione ed ha quindi necessità di trovare, o creare, un nemico esterno.

Baku approfitta del nuovo espansionismo turco per riarmarsi, contando sull’appoggio eventuale di Ankara, mentre l’Armenia non sta con le mani in mano, perché fa parte del Collective Security Treaty Organization (Csto), che riunisce anche Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan e Russia, con l’appoggio esterno di Serbia, Iran e Afghanistan.

Se il conflitto continuasse, queste nazioni potrebbero scendere in campo per aiutare rispettivamente i propri alleati, portando a un’estensione del conflitto, col timore collegato che, a cascata, si riaccendano i tanti micro-conflitti di una regione in cui etnie, culture e tradizioni sono cristallizzate in centinaia di micro-popoli: già il geografo greco Strabone, prima di Cristo, ne aveva contati un centinaio… È per questo che l’Unione europea e le Nazioni Unite stanno cercando di spegnere il fuoco.

 

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