Myanmar: una situazione davvero difficile
In questi giorni, pensando agli amici nelle città di Yangon, Mandalay e Bassein, mi riesce difficile dormire: rivedo i loro volti che amo e so che alcuni di loro sono per strada a dimostrare, vedo le loro foto su Facebook e mi preoccupa la situazione del paese.
Il movimento di disobbedienza civile che coinvolge in modo traversale, per la prima volta nella storia del paese, le diverse etnie, categorie di lavoratori, età, classi sociali sta provocando l’effetto voluto sull’economia del paese, che è praticamente ferma da inizio febbraio. Chi è in grado di camminare, chi può urlare, sbattere pentole e coperchi o quant’altro, è per le strade delle città per chiedere il rilascio di Aung San Suu Kyi, del Presidente Win Myint e degli altri leader democratici, nonché delle migliaia di persone che in questo mese sono state arrestate.
Nei cortei si vedono donne di 80 anni e mamme con bambini in fasce. La sera, dopo le 21, quando vengono tagliati i collegamenti internet, militari e poliziotti bloccano le strade e spesso vanno di casa in casa per arrestare la gente, picchiare coloro che hanno filmato durante il giorno le violenze dei militati. Molti giornalisti e attivisti politici sono scomparsi, e coloro che sono ancora in circolazione cercano di stare un passo in avanti ai militari, di precedere le prossime mosse spostandosi ogni notte in un luogo diverso per sfuggire alla cattura.
La violenza, da parte del tatmadaw (esercito) sta aumentando giorno dopo giorno. Si uccidono monaci buddisti che partecipano alle manifestazioni: un fatto gravissimo per ogni buddhista. I cecchini sono appollaiati sui tetti dei palazzi e da lì sparano sulla gente.
Perché tanta crudeltà? Perché si spara sulle ambulanze e si prendono a calci, a bastonate gli operatori sanitari? Perché si uccide a sangue freddo e si infierisce sul corpo inerme di un manifestante a terra? Perché dare ordine di sparare alla testa di una giovane e famosa manifestante, di soli 19 anni, Kyal Sin, e porre fine alla sua giovane vita senza alcuna pietà? Sulla sua maglietta nera c’era una scritta bianca, molto evidente: ‘’tutto andrà bene’’.
Kyal Sin, pianta in Myanamr come all’estero, rimane ora il simbolo di una giovane nazione che non vuole ritornare sotto il giogo dei militari, che dura da 70 lunghi anni. Mentre scrivo si contano già 67 persone uccise e più di 3 mila persone arrestate, ma anche oggi sono milioni nelle strade che, in modo pacifico, protestano e chiedono il ritorno alla democrazia. I manifestanti non sparano.
Negli ultimi giorni un cospicuo numero di poliziotti ha attraversato il confine con l’India per cercarvi rifugio e sfuggire alla stretta degli ordini imposti dai militari. E la comunità internazionale?
Le Nazioni Unite, anche nella riunione a porte chiuse di venerdì scorso, non sono riuscite a trovare un accordo che possa dare un segnale chiaro ai militari: nessuno stop, in pratica, ma un rimando al ruolo dell’Asean, l’Associazione delle nazioni del sud est asiatico, invischiata come sempre nel balletto di non interferenza con quelli che sono chiamati affari interni di un paese membro.
Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, bloccato da Russia e Cina, non riesce a pronunciarsi in maniera univoca. Stati Uniti, Inghilterra, Francia e Australia hanno iniziato a condannare e ad imporre sanzioni economiche, chiedendo alla Cina un ruolo “più attivo” per scongiurare una nuova catastrofe umanitaria.
Ieri un gruppo di persone ha attraversato il confine con l’India in cerca di rifugio: siamo all’inizio di un nuovo esodo. Domenica scorsa ero al confine tra Thailandia e Maynmar e la situazione è molto tesa. Si teme che molti, nelle prossime settimane, scapperanno verso il rifugio di sempre, il Regno di Thailandia, che negli ultimi 70 anni ha accolto chi fuggiva dal Myanmar.
Non esistono i tanto sbandierati “affari interni di un paese”: questo non è giusto e va detto perché è una vera vergogna lavarsi le mani dal sangue in questo modo. Quello che succede in un Paese interpella tutti: non possiamo permettere che una nazione schiacci i diritti civili per poi continuare a fare business con chi comanda, in pratica con chi impugna ancora armi sporche di sangue.
È tempo per Russia Cina e India di avere un ruolo chiaro e inequivocabile verso l’alleato di sempre, il Myanmar. È tempo per queste tre super potenze di schierarsi dalla parte della gente che chiede di vivere con il governo che hanno scelto. È tempo di giustizia anche per i Rohingya, un milione di persone ancora in esilio in Bangldesh. Ora la comunità internazionale ha capito che i veri artefici della pulizia etnica del 2017 sono stati i militari, che contro il volere di Aung Sang Suu Kyi hanno scacciato i bengalesi fuori dallo stato di Arakan.
Il movimento di disobbedienza civile in Myanmar sta dando un segnale a tutte le aziende che lavorano con i militari. Bloccando l’economia dicono: i nostri affari interni sono anche i vostri!