Myanmar, sconfiggere il nemico con l’amore
Alcuni esperti di politica internazionale, affermano che in Myanmar si stanno creando le condizioni per un nuovo genocidio. Come nel 1975 in Cambogia, oggi potrebbe essere la volta Myanmar? Davvero non possiamo fare niente per fermare la carneficina in corso da due mesi? Ma possiamo ancora sperare?
La politica continua a ripetere il suo mantra sul “non intervento negli affari interni di un Paese”, il principio tanto proclamato da Vietnam, Cina e Russia mentre vendono armi per miliardi di dollari ai militari del Tatmadaw, armi usate per uccidere la popolazione. Una storia tristemente nota: nella Cambogia di 45 anni fa, dal 1975 al 1978, il governo dei Khmer Rossi con la scusa del “non intervento negli affari interni del paese” sterminò il 25% della popolazione cambogiana.
In Myanmar stanno risuonando tamburi di guerra, e il loro suono è terribilmente sinistro, cupo. Come in ogni parte del mondo, del resto, quando la guerra alza la sua voce. Quasi 600 manifestanti pacifici sono già stati uccisi, tra cui molti bambini, il più piccolo aveva 5 anni (secondo Save the children sono 43 i minori uccisi dai militari, in 2 mesi). Si parla di più di 3 mila arrestati, e di molti di loro non si conoscono le sorti.
L’Alleanza del nord che combatte contro il Tatmadaw del governo militare del Myanmar è composta dalle milizie di quattro gruppi etnici che sembra si siano alleati. Sarebbe la prima volta nella storia del paese, martoriato da 70 anni di guerra, che le etnie si alleano per difendere i manifestanti e per combattere il tiranno di turno, che oggi è il generale Min Aung Hlaing. Così l’Arakan Army (Aa), il Kachin Independence Army (Kia), il Myanmar National Democratic Alliance Army (Mndaa) ed il Ta’ang National Liberation Army (Tnla), formazioni che dal 2016 combattono aspramente il Tatmadaw ognuno per la propria etnia, si sono alleate contro il nemico comune.
Ed il governo militare ha promesso di distruggerli. Nei giorni scorsi, i militari del Tatmadaw hanno scatenato attacchi aerei contro villaggi e scuole dei karen, mettendo in fuga la gente inerme. Sono almeno 12 mila quelli che hanno raggiunto il confine con la Thailandia, l’unico posto dove fuggire. Ora si trovano a ridosso del filo spinato di confine e chiedono asilo. Ad aggravare la situazione c’è ovviamente anche il Covid, ed i militari thai non fremono per aprire loro le frontiere, avendo già in casa, in 9 campi profughi, circa 80 mila rifugiati birmani.
È una vera emergenza umanitaria, trattandosi di anziani, donne e bambini. I giovani e gli uomini sono rimasti nella foresta, per unirsi alla guerriglia. Come nel 1948, 1962, 1988, 2007. Questa è una storia che va avanti ormai da troppo tempo. Intanto i militari del Tatmadaw colpiscono di notte i profughi karen nascosti nel buio con missili sparati dagli elicotteri russi di cui sono forniti. È evidente che insieme agli elicotteri si sono dotati di visori notturni a raggi infrarossi, che qualche anno fa non avevano. È un segno, fra l’altro, di quale uso fanno del denaro pubblico, speso più in armamenti e molto meno per le infrastrutture del Paese, che ne avrebbe tanto bisogno.
Naturalmente i karen del fronte Karen National Liberation Army (Knla) hanno subito risposto, conquistando due postazioni militari dell’esercito. Tutti segni dell’annunciata ed imminente guerra delle milizie etniche contro l’esercito del Myanmar.
Perché il forte timore di alcuni analisti geopolitici della regione che si possa cadere in un altro genocidio? Siamo di fronte ad una nazione di 54 milioni di persone che a grande maggioranza vogliono la democrazia, ed un esercito, il Tatmadaw (circa 400 mila militari, difficile avere stime ufficiali sicure) che, in barba ad ogni regola internazionale ed umanitaria, spara nelle case, sui bambini, su donne incinte e anziani. L’economia del Paese, a causa del movimento di disobbedienza civile (Cdm) è praticamente bloccata.
I giovani della “generazione Z”, sono tutti in strada e, nonostante i morti, non sembrano intenzionati ad arrendersi ma a votarsi al martirio pur di rovesciare la giunta militare capeggiata da Min Aung Hlaing. Si spera anche che quella parte di militari che a novembre 2020 ha votato per il partito democratico della premio Nobel Aung San Su Kyi si senta tradito dai colleghi che appoggiano la giunta. Il generale Min Aung Hlaing, da parte sua, si sente sempre più accerchiato e risponde con la violenza all’interno e con le alleanze con russi e cinesi all’estero. Si spera in una frattura tra i militari, in una rivolta interna contro il generale. Certo, l’Onu e molti Paesi sanzionano e fanno dichiarazioni, ma non basta. Anche la diplomazia sta lavorando, anche quella nascosta di cui nessuno parla, ma il tempo stringe.
Il cardinale di Yangon, Charles Bo, si è rivolto a Pasqua ai cristiani e a tutti. Le sue sono parole emblematiche per il futuro del paese e costituiscono una proposta contro corrente: «Dare la propra vita non solo per il trionfo della democrazia, ma anche per l’umanizzazione del nemico». Parole forti, profondamente evangeliche.
«Perchè si tratta di dare un corso diverso alla storia del Paese, e di sconfiggere non solo chi ha rubato il futuro alla nazione, ma anche di ricomporre le lotte fraticide tra le etnie e quelle religiose. Perciò la strada della pace e della non violenza, abbracciata dai manifestanti, che tutto il mondo ammira, va portata avanti per costruire un nuovo Myanmar, per far risuscitare questo Paese dall’odio etnico e dalle lotte intra-religiose. Sconfiggere il nemico con l’amore, con il senso di umanità. Questo è il messaggio della croce. Questo è il destino di questa nazione».