Myanmar, nazionalismo e monaci buddhisti

Il 4 gennaio scorso, il Myanmar ha celebrato il 75° anniversario della sua indipendenza. Dopo il colpo di stato del 1° febbraio 2021, che ha riportato la giunta militare al potere, è stata l’occasione per favorire ulteriormente il nazionalismo che si sta diffondendo non solo fra i militari, ma anche fra le decine di migliaia di monaci buddhisti
Myanmar
I soldati partecipano alla cerimonia per il 75° anniversario del Giorno dell'Indipendenza del Myanmar, mercoledì 4 gennaio 2023. (AP Photo/Aung Shine Oo) Associated Press/LaPresse

Gli ultimi anni hanno visto non solo in Myanmar, ma anche in Sri Lanka e in altri paesi a maggioranza buddhista, una crescente virata verso la politica e le azioni sociali del clero buddhista. Il buddhismo è da sempre una religione di pace e serenità. La sua finalità è proprio quella di eliminare la causa della sofferenza e della tristezza.

Tuttavia, negli ultimi decenni, si è diffusa una duplice via di sviluppo rispetto al passato. Soprattutto in Sri Lanka e in Thailandia ha preso sempre più forma un impegno sociale da parte dei monaci, che hanno via via dato vita ad iniziative soprattutto per la crescita socio-economica delle zone rurali e montane di questi Paesi. Molti monasteri del sud-est asiatico sono anche diventati centri di iniziative ecologiche e, in generale, questi sviluppi ed impegni hanno rappresentato una svolta sia per il buddhismo come fenomeno religioso e culturale sia per i rispettivi Paesi dove questa religione rappresenta l’essenza della cultura.

Al tempo stesso, si è venuto a sviluppare anche un fenomeno di carattere politico che ha visto i monaci ed i loro monasteri protagonisti di scelte e di azioni piuttosto sconosciute in passato. Si è trattato, spesso, soprattutto in Sri Lanka, di una presa di posizione di carattere “fondamentalista” probabilmente ispirata da realtà islamiste presenti come minoranze in questi paesi. Si cerca di far filtrare la logica che un paese buddhista non può accogliere persone di altra religione. Per vari anni si è inneggiato ad uno Sri Lanka pienamente buddhista, ma ora il messaggio ha attraversato i confini dell’isola.

In Myanmar, da vario tempo, gruppi di monaci hanno assunto lo stesso atteggiamento di cui hanno fatto le spese comunità come i Rohingya. Ma il cambio di direzione della classe monastica birmana è su vari fronti, soprattutto politici. Da vario tempo, infatti, gruppi consistenti di membri della classe monastica hanno assunto posizioni di supporto alla giunta militare che da febbraio 2021 governa il Paese con rinnovata violenza e brutalità, dopo vari anni di tentativi democratici. Il fenomeno segna una chiara inversione di rotta rispetto a quanto avvenuto negli ultimi decenni.

Proprio i monaci, infatti, sia nelle dimostrazioni anti-regime del 1988 che in quelle del 2007 avevano marciato per giorni nelle strade manifestando molto chiaramente contro la giunta militare, che ben sapeva che un tale fenomeno così apertamente contrario poteva coagulare l’opinione pubblica nazionale. Attualmente, invece, le cose sono ben diverse e questo, secondo molti osservatori, a causa dei tentativi da parte dei militari al governo di corrompere alcuni monaci, favorendo la costruzione di monasteri, offrendo appezzamenti di terra, regali personali anche preziosi, ecc.

Ormai non sfugge a nessuno che la giunta militare è riuscita a guadagnarsi l’appoggio politico di molti uomini in saio arancione. Inoltre, negli ultimi tempi, le intemperanze che si erano a lungo concentrate sui musulmani si stanno estendendo anche ai cristiani. Lo stesso papa Francesco, domenica scorsa, ha pregato per la situazione in Myanmar ed ha parlato con «grande dolore» dell’assalto a una chiesa che è stata bruciata (a Chan Thar).

Il monachesimo buddhista birmano sta, quindi, assumendo un atteggiamento fondamentalista, nazionalista e islamofobo, con pericolosi segni anche di cristianofobia. La massima autorità del buddhismo birmano, conosciuto come Ma Ha Na (Comitato Sangha Maha Nayaka), dopo il colpo di stato del 2021 ha mantenuto un silenzio assoluto sulla crisi e sull’atteggiamento di un crescente numero di monaci.

In questi due anni la giunta militare ha operato con estrema scaltrezza politica cercando di conquistarsi la simpatia e l’appoggio ufficiale dei monaci, ben sapendo che la loro opposizione potrebbe essere assai pericolosa con l’andare del tempo. Attualmente è in corso la realizzazione di una statua del Buddha seduto – che dovrebbe essere la più grande al mondo dell’Illuminato in tale posizione – in cui molti vedono un chiaro tentativo da parte del capo della giunta militare Min Aung Hlaing di accreditarsicome promotore del buddhismo e suo protettore.

Non è un caso, quindi, che in occasione della festa dell’Indipendenza, la giunta golpista birmana abbia reso omaggio al monaco Ashin Wirathu, soprannominato nel 2013 dalla rivista Time, «il bin Laden buddhista» o «il volto del terrore buddhista». La giunta militare ha inoltre annunciato un’amnistia per oltre 7mila prigionieri, anche se in passato diversi perdoni di massa si sono conclusi con il nuovo arresto e il ritorno in carcere dei detenuti.

D’altra parte, l’attuale posizione di vari leaders del buddhismo birmano rivela una profonda contraddizione. Essi appaiono come paladini di un regime che non cessa di perpetrare violenza dovunque arriva, e questo è in chiara contrapposizione con uno dei principi fondamentali del buddhismo: astenersi dall’uccidere qualunque essere vivente. In un’interessante intervista concessa, in questi giorni, all’agenzia AsiaNews, il prof. David Moe dell’Università di Yale, ha evidenziato che il nazionalismo buddhista rappresenta uno dei fenomeni più interessanti e caratteristici della Birmania. Nel periodo coloniale, pre-indipendenza, si trattava di un nazionalismo buddhista anticoloniale e antioccidentale. Dal 1948, ha poi assunto una connotazione contro le minoranze etniche e religiose, in particolare contro musulmani e cristiani. «Al tempo stesso – afferma il Professor Moe – l’identità buddhista ha cominciato a sovrapporsi a quella etnica della maggioranza Bamar».

Proprio la questione etnica – non dobbiamo dimenticare che nel Paese coesistono 135 gruppi etnici – è una questione centrale nelle problematiche interne del Paese. Al punto che il gruppo etnico di appartenenza è ora obbligatoriamente riportato sulla carta di identità locale. L’aspetto politico, quello sociale e quello religioso sono, quindi, profondamente interconnessi e si presentano di difficile soluzione in una situazione in cui sembra non sia possibile fare qualcosa a livello internazionale.

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