Myanmar: il mondo deve sapere cosa sta accadendo
È così che va la storia in Myanmar: una zona tranquilla, quella del Sagaing, vicino a Mandalay, alle 7 del mattino, mentre la gente mangia il poco riso che ha e si sta organizzando una danza per festeggiare l’apertura dell’ufficio di rappresentanza del Governo di unità nazionale (Ngu) e dell’Esercito popolare (il Pdf, People Defence Force). Gente povera o al massimo modesta, di campagna, che cerca di avere una vita normale in un Paese dove i militari non combattono un nemico che viene da fuori, ma la propria gente. E quei militari, il Tatmadaw della Giunta militare golpista, probabilmente per una “soffiata”, hanno voluto dare una lezione al Pdf degli irriducibili: con jet e missili aria-terra, l’aviazione ha attaccato, radendolo al suolo, il villaggio di Pazi Gyi, uccidendo almeno 120 persone. Questo il bilancio e la notizia nuda e cruda. Una cosa orrenda, diciamolo pure. Un crimine perpetrato contro civili, studenti e contadini, che dopo 60 anni di guerra civile, hanno deciso di imbracciare le armi, le poche che riescono a trovare, e di combattere, contro un esercito spietato, ben armato e ben addestrato.
Molti Paesi occidentali e le Nazioni Unite nelle sue massime cariche, hanno espresso indignazione e chiesto che i responsabili siano portati davanti alla giustizia. Ma come farlo? Chi ha la facoltà di entrare a Burma (il vecchio nome del Myanmar ancora usato dal Dipartimento di Stato Americano) e andare ad arrestare i responsabili di questi crimini? Ormai sono almeno 3.100 i civili uccisi in circostanze analoghe, oppure durante manifestazioni di protesta, da parte delle forze armate che hanno abbattuto lo Stato di diritto con il golpe del 1 febbraio 2021. La guerra civile in Myanmar ha stabilito un record che fa venire i brividi: è la più lunga guerra civile della storia dell’umanità, dura da 60 anni.
Da quando l’Indonesia è presidente dell’Asean (Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico), il 1° gennaio 2023, gli sforzi si stanno moltiplicando per migliorare i contatti tra i principali attori della pace in Myanmar: sforzi sperati, annunciati e per i quali si lavora intensamente. Sforzi osteggiati e derisi dal comportamento del regime birmano del generale Min Aung Hlaing. In pratica, il generale ed i suoi sostenitori si prendono gioco della comunità internazionale e proseguono nella loro truculenta politica di eliminazione fisica di tutti gli avversari politici e militari, compresi i bambini, che rappresentano futuri possibili avversari.
Eppure, nonostante la connivenza di diverse aziende occidentali produttrici di armi (alla faccia dell’embargo), il sostegno palese della Russia e quello al solito più sfumato della Cina, il Tatmadaw del generale Min Aung Hlaing perde territorio giorno dopo giorno, tanto che ha dovuto prolungare di 6 mesi lo stato di emergenza nazionale ed anche rinviare le elezioni farsa che erano state indette per il prossimo agosto. Il governo ombra del Nug dichiara di avere il controllo del 52% del territorio nazionale: e questo, anche se non ammesso, è uno scacco umiliante per il regime.
I militari del regime hanno il morale così a terra, che deve essere utilizzata l’aviazione per evitare le imboscate continue e sanguinose, dove il Pdf, l’esercito della gente, ha ormai quasi sempre la meglio. Si ripete in qualche modo la vicenda del Vietnam, dove le truppe statunitensi e sudvietnamite, bene armate, non riuscirono a sconfiggere i viet-cong, che si nascondevano nei cunicoli sotto terra e che smontavano a mani nude enormi bombe inesplose per ricavarne piccole bombe efficaci e letali.
La situazione è molto confusa, ma è guerra. E guerra sarà fino alla fine. La convinzione tra la popolazione è che si combatterà fino alla vittoria, perché nessuno scorge possibilità di dialogo tra le parti in lotta. I generali e i militari di Min Aung Hlaing non possono perdere, perché questo significherebbe la loro morte e la fine di un regime che, negli ultimi 60 anni, si è macchiato dei crimini più atroci contro l’umanità.
Papa Francesco, nel messaggio pasquale per la pace, ha ricordato il Myanmar, e insieme anche i Rohingya: un messaggio molto mirato. Perché ricordare i Rohingya? Forse è lì che si potrebbe nascondere una via verso la pace. Affrontare il problema di 1,2 milioni di profughi Rohingya del Myanmar, rifugiati in Bangladesh ed in altri paesi della regione, riguarda una piaga interna del Myanmar, oltre che dell’umanità intera. Forse anche le altre etnie birmane dovrebbero accettare i Rohingya come fratelli e figli della stessa nazione, cosa che non avviene.
E qui sta un altro grave problema interno del Myanmar: i Rohingya sono spesso chiamati in modo dispregiativo “bengalesi”, e da tanti non vengono considerati parte delle 135 etnie nazionali birmane. In pratica, sono considerati stranieri dai loro stessi connazionali. Forse la pace in Myanmar potrebbe passare per una fraternità accolta e condivisa. Con i Rohingya, ma non solo con loro.
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