Myanmar: la sfarzosa devozione del regime
Il 1° agosto è avvenuta l’inagurazione di una nuova statua del Buddha, alta quasi 25 metri, circa 5 mila tonnellate di marmo bianco, per un costo di circa 30 milioni di dollari e situata a Naypyidaw, la capitale del Myanmar, in uno spazio di 92 ettari che comprende monasteri e padiglioni per celebrazioni religiose: un’opera colossale chiamata Maravijaya. Non si hanno molte notizie, se non da fonti militari, della sfarzosa cerimonia, tra il religioso ed il politico, avvenuta, alla presenza di alcune delegazioni di monaci provenienti da Bangladesh, Cambogia, India, Laos, Nepal, Thailandia, Sri Lanka, Vietnam e di molti militari. Gli osservatori più attenti commentano che, per problemi di immagine, non si è dato risalto internazionale alla notizia. Il motivo si intuisce: in paese martoriato dalla guerra e dalla fame, inaugurare “la più grande statua del Buddha al mondo” (che sarebbe tale secondo i militari del Tatmadow), non è una buona notizia soprattutto per i molti buddhisti sinceri sparsi nel mondo. E neppure per il mondo civile, quello che ci tiene ai diritti umani e che annovera molti ammiratori del buddhismo autentico. Un progetto, quello di Maravijaya e della sua statua colossale, nato subito dopo il colpo di stato del 1° febbraio 2021 da parte dei militari che avevano preso il potere cancellando la giovanissima democrazia guidata dal Premio Nobel per la pace 1991, Aung San Suu Kyi, che proprio in questi giorni pare sia stata trasferita dal carcere agli arresti domiciliari.
Un progetto dai costi pazzeschi in un Paese dove la denutrizione, in vaste regioni, è endemica. Soprattutto in un paese come il Myanmar dove si combatte e si muore ogni giorno e dove i militari perdono di settimana in settimana, territori sempre più importanti ad opera dell’Esercito di difesa popolare (Pdf, people defence force) e dei gruppi armati regionali ed etnici, sempre più alleati fra loro, che avanzano, sembra, inesorabilmente.
Mentre scrivo, ho notizie di persone che continuano a varcare il labile confine che divide il Myanmar dalla Thailandia per cercare una nuova vita, magari dura nei campi profughi, ma almeno lontano dalle rappresaglie e dai raid aerei dei militari del Tatmadaw. Dura ormai da 70 anni la guerra tra i militari birmani e la loro stessa gente. I generali non avevano mai digerito che le elezioni di novembre 2020 avessero asseganto la vittoria al partito democratico, il Fronte Nazionale Democratico di di Aung San Suu Kyi.
Ma la devozione verso il buddhismo theravada da parte dei militari non è nuova: già i predecessori del generale Min Aung Hlaing hanno percorso questa strada, come l’oggi novantenne generale Than Shwe. Da sempre i generali birmani si considerano protettori del buddhismo theravada e amano costruire opere colossali per accattivarsi i voti e le simpatie di una parte della popolazione e soprattutto dei monaci tradizionalisti. Anche nei paesi limitrofi si pratica questa strada per restare al potere: una tattica antica come il mondo, tenere sotto le ali del potere i quadri religiosi, monaci influenti che esortano la popolazione a sostenere il regime (i monaci buddhisti non hanno diritto di voto). Monaci che diventano così, in pratica, dei funzionali governativi che attirano e convogliano la simpatia della gente verso il potere costituito. I gruppi nazionalisti buddhisti del Myanmar, ma anche in Thailandia, Laos, Cambogia e nel resto dei paesi della regione, sono vicini ai militari e ne appoggiano le mosse, ricevendo in cambio onori, denaro, posizioni di potere all’interno del Sangha (comunità dei monaci). E questo crea malconto tra la gente e disamore verso quella parte clero buddhista connivente con il regime. E i monaci che non si allineano con il potere e con chi sta al potere, vengono emarginati ed esclusi. Come dice un amico monaco buddhista, da tempo escluso dalle cariche elargite dal potere per il suo modo pacifico di ribellarsi: «I preti ed i vescovi cattolici sono consacrati dal Papa e mandati dove lui vuole. Noi monaci (buddhisti) siamo comandati da politici laici e peccatori, che ci promuovono per interessi di potere».
Ma vale la pena di tornare a considerare quel gioiello di Paese che è il Myanmar, per scoprire l’anima gentile della sua gente autenticamente devota buddhista e lontana dagli interessi di potere sia politici che religiosi. Gente che mi commuove ogni volta che vedo pregare in ginocchio, alla pagoda Shwedagon, a Yangon: fedeli genuini che chiedono la pace e la serenità per il Myanmar, che attendono la pace da 70 anni. Qualcosa si sta muovendo in questi giorni e molti sperano e pregano che la signora, Aung San Suu Kyi, possa tornare presto in libertà e guidare ancora la sua gente verso un futuro di pace e prosperità.