Myanmar, la guerra colpisce anche i cristiani

La guerra russo-ucraina ha cancellato nell’immaginario comune la presenza di molti altri conflitti sul pianeta, alcuni dei quali dimenticati: il conflitto in Myanmar è fra questi. La guerra dei militari birmani non si ferma e ultimamente ha colpito anche i cristiani presenti nel Paese asiatico
Myanmar foto Ap

Negli ultimi mesi la guerra Russo-ucraina ha monopolizzato, soprattutto in Europa, tutti i discorsi che riguardano questioni, timori, prospettive belliche. La questione ucraina ha un valore geopolitico che determina un coinvolgimento non solo della Russia, ma di tutte le potenze mondiali (Usa e Cina in primis) oltre all’Ue e, soprattutto, la Nato. Questa situazione ha cancellato nell’immaginario comune la presenza di molti altri conflitti sul pianeta, alcuni dei quali da tempo dimenticati.

Il conflitto in Myanmar è fra questi. Si tratta di una guerra di fatto civile combattuta dalle forze governative fedeli alla giunta militare che guida nuovamente con pugno di ferro il Paese, dopo il colpo di stato avvenuto a febbraio 2021. Quell’improvviso blitz della giunta che, negli anni precedenti, aveva dato l’impressione di mollare la presa sul potere, permettendo elezioni libere (almeno apparentemente) ed un governo democratico (che pure doveva prevedere una quota di ministri della giunta militare), ha dato il via ad una escalation di violenza di cui poco o nulla si sa e si parla in occidente. Il Myanmar, attualmente, non ha una rilevanza geopolitica e strategica come altri Paesi, vittime di conflitti più noti.

La situazione birmana è assai complicata. Oltre all’aspetto politico attuale e all’esperienza traumatica per il Paese – per altro bellissimo e ricchissimo di cultura e di arte –, esiste una grande complessità interna legata alla varietà di tribù che costituiscono ed abitano quell’angolo di Asia. Fra i 135 gruppi etnici riconosciuti, i Birmani propriamente detti (Bamar) sono il 65%, e vivono nelle terre basse misti a minoranze cinesi (3%) e indiane (2%); al loro stesso gruppo (quello sino-tibetano) appartengono anche le minoranze dei Karen, dei Kachin e Chin (in totale, il 10%); al gruppo dei Thai-Kaday afferiscono gli Shan (ca. 8%) dell’omonimo altopiano; gruppi austroasiatici (Mon, Palaung e Wa) sono sparsi in aree isolate. La stragrande maggioranza della popolazione pratica il buddhismo theravada tipico del Sud Est asiatico, ma ci sono anche cristiani, indù e musulmani.

L’attuale conflitto civile ha pericolose implicazioni tribali, etniche e anche religiose. Negli ultimi tempi, infatti, non sono mancati attacchi anche alle comunità cristiane con danni a luoghi di culto e distruzione di chiese. È quanto accaduto alla storica chiesa di Nostra Signora dell’Assunzione edificata nel 1894 nel villaggio di Chan Thar, nella cittadina di Ye-U. Pochi giorni prima un raid dei militari nello Stato Karen aveva distrutto un’altra chiesa facendo varie vittime compreso un bambino.

Sono notizie, recentemente pubblicate dall’agenzia AsiaNews dei padri del Pime, che inquadra la storia delle chiese distrutte risalendo all’epoca della Fondazione di Mandalay, la seconda città del Paese. È una zona particolarmente cara ai cattolici in quanto il villaggio di Chan Thar, vicino a Mandalay, è sorto e si è sviluppato grazie all’opera di discendenti dei cattolici portoghesi che vi hanno poi abitato per secoli. A partire dal colpo di stato del febbraio 2021 l’esercito ha attaccato già quattro volte la zona.

Si tratta di un luogo dove la popolazione – a maggioranza cattolica – vive in armonia con due vicini centri buddhisti. Lo scorso anno, in due occasioni, i militari hanno dato fuoco alle abitazioni della zona, ed episodi del genere si sono ripetuti anche nelle scorse settimane. Il 14 gennaio gli uomini del Tatmadaw (Forze armate) hanno raso al suolo e bruciato quasi tutte le abitazioni, dopo che in occasione del Nuovo Anno, l’arcivescovo di Yangon, il card. Charles Bo, indirizzandosi ai fedeli aveva dichiarato gennaio come “mese del cessate il fuoco”, rivolgendosi a tutte le parti – militari compresi – e chiedendo di “far tacere le armi” e di “credere a una soluzione pacifica”. Egli aveva sottolineato il valore del “dialogo” nella risoluzione dei conflitti e invocato la ripresa dell’Accordo di Panlong, che regolava e tutelava i rapporti dello Stato con i gruppi etnici Shan, Chin e Kachin. Ma è un linguaggio che i militari della giunta non intendono o forse non vogliono proprio comprendere.

Un segno di speranza e un passo significativo verso un dialogo pacifico e costruttivo l’ha compiuto un giovane monaco buddhista, prendendo anche le distanze da quella parte di monaci buddhisti che appoggiano il regime della giunta militare.

Il monaco si chiama Ashin Mandalarlankara e proviene proprio da Mandalay: sta frequentando il John Paul II Center for Interreligious dialogue, di Roma. Un centro, nato dalla collaborazione fra l’Università domenicana dell’Angelicum e la Russel Berrie Foundation (di ispirazione ebraica), che ha l’obiettivo di formare leader in grado di lavorare per arrivare alla pace attraverso il dialogo interreligioso. È la prima volta che un monaco theravada del Myanmar prende parte a questo corso.

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