Myanmar e la nuova tratta degli schiavi
Un amico mi diede, tempo fa, una definizione del Myanmar che penso possa aiutarci a capire la causa dei suoi mali. Immaginate la cucina di un ristorante con cuochi che non sanno far da mangiare. Un giorno, un cliente denuncia il ristorante alle autorità competenti, che lo chiudono. Poco dopo il ristorante riapre di nuovo, con un nuovo nome, ma con gli stessi cuochi; solo che questi cambiano i loro abiti e mettono parrucche e baffi. Il risultato non cambia: mandano puntualmente i loro clienti all’ospedale ad ogni pasto. Così il Myanmar, o ex Birmania, come vogliamo chiamarla! Governato per 60 anni da militari che pensavano ai propri interessi e non sapevano (o non volevano sapere) cosa fossero i diritti umani, ad un dato momento, per interessi commerciali, delle corporazioni occidentali, hanno cambiato vestito: da militari si sono vestiti da civili, cambiato nome alla nazione, bandiera, capitale, Parlamento e quant'altro, ma sono rimasti sempre gli stessi e ciò che fanno è sempre il solito disastro: la gente soffre ed il Paese patisce l’ingiustizia sociale.
L’arcivescovo di Yangon, mons. Charles Bo non ha esitato a definire la situazione attuale un autentico «inferno che copre di vergogna il Myanmar». Una denuncia contenuta in una lettera-appello, diffusa il 13 settembre scorso. Un intervento duro, ma necessario, contro questa nuova forma di schiavitù diffusa in tutto il Sud-est asiatico: la tratta di uomini e donne schiavizzate per lavorare nelle "galoppanti" economie confinanti con il Myanmar ed il commercio di giovani donne per ricchi signori stranieri.
Un problema che colpisce tutta la regione, famosa per la sua popolazione gentile, educata e graziosa. Ma in quest’ultimi anni il Myanmar, che da poco ha aperto i suoi confini rendendo più facile l’entrata dei turisti ed i viaggi all’estero per i suoi cittadini, ha visto il proliferare di "strane agenzie matrimoniali", o di semplici "mediatori", a caccia di future spose per ricchi e solitari uomini d’affari: bastano pochi soldi alle famiglie e la promessa di un futuro migliore per le povere ragazze delle province birmane, per portarsele via, ma non verso la promessa felicità. Tutto sotto gli occhi delle autorità, spesso compiacenti se non addirittura con interessi diretti in questo "sporco business". E il senso di giustizia? Ricordiamo la storia dei cuochi: sono gli stessi da decenni e combinano a perpetrare le loro malefatte.
La Chiesa, con mons. Charles Bo, si schiera nuovamente a favore dei più deboli ed indifesi: parla e denuncia problemi che altrimenti passerebbero nel silenzio. La tratta di esseri umani è una vera piaga sociale. L'arcivescovo si rivolge, con la sua lettera, al governo chiedendo di «interrompere questa nuova forma di moderno schiavismo, che colpisce in modo particolare le donne che vengono sfruttate non solo per lavoro, ma anche con finalità sessuali». È proprio il Sud-Est asiatico l'area del mondo in cui risiede la parte più ambita dell’umanità per questo traffico, percheé povera, vulnerabile, ma di grande qualità umana.
Un problema che tocca da vicino Thailandia, Cambogia, Laos e Myanmar, definito "la nazione dell'esodo”, a causa di una dittatura spietata durata 60 anni, che ha causato sottosviluppo ed un povertà indescrivibile. Attualmente c’è poi il miraggio di una vita migliore in Thailandia, per esempio, che spinge la gente a cercare ogni mezzo per fuggire per realizzare un sogno: un lavoro pagato decentemente ed una vita migliore.
I mezzi per far uscire le persone illegalmente dal Myanmar sono molti e pericolosi: non è raro che donne e uomini muoiano, per esempio, all'interno di container durante i tanti tentativi non riusciti di emigrazione clandestina. Una strage che si ripete spesso.
Mons. Charles Bo rilancia la stessa denuncia fatta da varie Organizzazioni non governative internazionali, che lamentano l'esistenza di una vera e propria connivenza tra ufficiali governativi e la rete dei trafficanti che finiscono per veicolare giovani alla “pratica del lavoro forzato”. Quello che più preoccupa è l'assenza di vera lotta contro questo fenomeno.
DI recente, nel Myanmar c'è stata un'accelerazione dello sviluppo economico e sociale, ma si tratta di un capitalismo di tipo clientelare che arricchisce i ricchi (spesso parenti dei militari-civili al potere) e impoverisce ancor più quanti sono già sfruttati. Non sono rari i casi di confisca di terreni agricoli dai poveri contadini a favore di grandi aziende locali con partner stranieri: i contadini non riescono a lottare legalmente contro queste grosse corporazioni che sono capaci di usare ogni mezzo per raggiungere i propri scopi.
C’è una sempre più marcata perdita dei diritti basilari dei più poveri a favore dei ricchi, potenti (e violenti). C’è un ulteriore aspetto da considerare: il ruolo della Cina. La nefasta politica del figlio unico ha causato gravi danni non solo in patria, ma in tutta la regione. Milioni di uomini si ritrovano senza donne e senza alcuna prospettiva di vita coniugale. Sono rimasto scioccato quando venni a conoscenza, anni fa, di un vero e proprio "tariffario" che gli uomini d’affari cinesi sono disposti a pagare per una giovane donna vergine della regione. Mons. Bo conclude la sua lettera con un appello al governo centrale del Myanmar: «Fate di questo Paese un’opportunità non solo per i ricchi, ma per tutti».
Un appello che non rimarrà lettera morta e che il nostro giornale si fa carico di lanciare ai suoi lettori.