Myanmar, cosa potrebbe succedere il 27 marzo?
Il 27 Marzo è una data importante per il Myanmar: in quel giorno, nel lontano 1945, l’esercito birmano guidato dal generale Aung San, padre di Aung San Suu Kyi, si schierò apertamente contro i giapponesi, considerati alleati fino a quel tempo, e lottò per l’indipendenza del Paese.
Stamattina, un’amica che vive nel nord del Myanmar, attivista del Movimento di disobbedienza civile (Cdm), mi diceva che le milizie di vari gruppi etnici aspettano questa data fatidica per insorgere. Quest’anno il 27 marzo non sarà una festa nazionale in onore delle forze armate, come avveniva di solito, perché le forze armate hanno ancora una volta tradito la democrazia del Myanmar: fra la gente girano voci sempre pìu frequenti che il 27 marzo potrebbe essere la data di una nuova rivoluzione, stavolta contro il Tatmadaw, accusato dalla maggioranza del popolo di essere un gruppo terroristico (e non più le forze armate del aese), che terrorizza e sistematicamente uccide la popolazione.
Le forze armate del Myanmar, guidate dal generale Min Aung Hlaing, hanno preso con la forza il potere, il 1° febbraio di quest’anno, arrestando la leader Aung San Suu Kyi, il presidente Win Myint e molti esponenti politici, della vita civile e sociale del Paese. Hanno addirittura epurato la gerarchia buddhista therawada, allontanando monaci famosi e stimati ma non favorevoli ai militari, sostituendoli con altri accondiscendenti e paurosi nei confronti del regime.
Al momento si contano quasi 300 vittime tra i manifestanti inermi, che si sono riversati nelle strade a milioni, chiedendo il rilascio dei leader politici, che hanno legittimamente vinto le elezioni di novembre scorso, ed il ritorno alla democrazia.
La risposta delle forze di polizia e del Tatmadaw è stata non solo sproporzionata, ma illegale e violenta, con l’uso documentato di armi da guerra, uccisioni sommarie a sangue freddo, violenze filmate contro il personale sanitario e le ambulanze che soccorrevano i dimostranti feriti. Sparando con pallottole vere contro donne e bambini, anziani, monaci buddhisti e chiunque semplicemente si trovasse per strada.
Con la legge marziale imposta in molte città del Paese, i militari sparano su qualsiasi persona si muova oppure esca semplicemente nel cortile di casa propria. Secondo testimonianze che ho raccolto direttamente da amici che vivono in Myanmar, la gente ha iniziato a proteggersi erigendo barricate rudimentali davanti a casa. I militari, con altoparlanti, hanno intimato di demolire le barricate, altrimenti l’avrebbero fatto con i buldozer e sparando contro la porta di casa e le finestre.
La settimana scorsa, si pensa che circa 200 mila persone abbiamo lasciato Yangon, la principale città commerciale del Paese, per rifugiarsi nelle campagne. Non è più possibile stare in casa o semplicemente dormire la notte: le forze dell’ordine arrivano in qualsiasi momento e prendono chi vogliono senza dare nessuna giustificazione. Molti si chiedono (e mi chiedono): «Quanto dolore, quante lacrime e quanto sangue ancora dovremo versare perchè ritorni la pace? Non sono bastati 70 anni di guerra civile, le repressioni del 1988 e del 2007? E 1,4 milioni di profughi Rohingya sparsi tra Bangladesh, Malaysia, Indonesia, non bastano ancora per giustificare un aiuto internazionale?».
Ed ancora: «Le Nazioni Unite ci stanno abbandonando: cosa aspettano ad aiutarci?». La verità è che non è facile. Nonostante anche India, Cina, Russia e Vietnam (che hanno molti interessi in Myanmar) abbiano chi più chi meno ammorbidito l’opposizione in sede Onu alla condanna del colpo di stato militare, l’iter diplomatico ha sempre tempi lunghi, troppo lunghi.
L’associazione Asean, nell’ultima settimana, attraverso i Ministri degli esteri indonesiano, thailandese, malese e di Singapore ha ripetutamente chiesto il rilascio dei prigionieri e la fine della repressione. Ma la giunta militare non vuole ascoltare e soprattutto non accenna a fermarsi. La situazione è grave, si rischia un vero e proprio genocidio ad opera delle forze militari o la guerra civile. La comunità internazionale deve trovare il modo di sanzionare, più che i Paesi, le grandi corporazioni internazionali che commerciano in petrolio, gas, giada, legno pregiato e sabbia bianca.
Ci vuole da subito un embargo totale di armi. Nelle capitali del mondo si deve dare voce al governo civile alternativo (Crph, il governo democratico clandestino) che sta cercando di dare speranza alla gente. L’ambasciatore Kyaw Moe Tun, che che si è dissociato ed ha avuto il coraggio di denunciare i crimini della giunta militare davanti all’Assemblea Generale della Nazioni unite, continua a chiedere all’Onu azioni concrete per fermare l’azione illegale del Tatmadaw.
Per chi ha fede, occorre pregare per salvare il Myanmar. Perchè la pace è sempre anche un dono, oltre che il risultato di uno sforzo e di un impegno condiviso.