Musica: l’anno che è passato e quello che verrà
L’annata discografica appena conclusa non è stata segnata da avvenimenti eclatanti. Qualche buon disco – qualcuno addirittura eccellente – a fronte d’una massa enorme di produzioni irrilevanti o comunque destinate a non lasciare alcun segno significativo. Idem dicasi per i personaggi: coi soliti ritorni eclatanti, quelli routinari, e un bel po’ di nuove scalpitanti popstar bramose di scalzare dal trono gli eroi della generazione precedente. Insomma, “niente di nuovo dal fronte occidentale”, per dirla con Remarque.
Ma nel frattempo ci siamo persi per strada Pino Daniele e Mango, per non dire di quel padre fondatore del blues moderno che è stato B.B. King. C’è poco da fare, la generazione dei capomastri di ciò che è stata la musica popolare novecentesca se ne sta andando, e con essa gli echi di una stagione creativa indimenticabile, ma ormai più vicina alla leggenda che alla realtà.
Quella in corso appare tanto diversa nei modi e nei vezzi produttivi, quanto impossibile da catalogare con chiarezza. Di certo l’ultima crisi ha lasciato il segno dando la mazzata finale sia alle vecchie regole di mercato che al concetto stesso di consumo musicale ormai definitivamente passato dal possesso all’accesso, ovvero dall’acquisto allo streaming (gli ultimi a cedere sono stati i Beatles proprio in questi giorni). Parallelamente il boom del crowdfunding – altra parola chiave per capire il futuro della produzione creativa – ci dice che questo 2015 verrà probabilmente ricordato come l’anno in cui il rapporto tra produttori e consumatori di musica ha lasciato intravedere orizzonti impensabili fino a pochi decenni fa.
Se a questo aggiungiamo la strada preferenziale dei talent per arrivare alla notorietà, sembrerebbe che sia iniziata per la musica una stagione non solo inedita, ma anche straordinariamente “democratica”. Ma ovviamente non è tutto oro quel che riluce; perché per la musica intesa come linguaggio artistico i tempi sono sempre più duri, ed essa appare sempre più mortificata da diktat che la intendono invece solo come un mezzo per ottenere visibilità, produrre redditi, garantire evasioni, rispecchiare costumi, più che come produttrice di emozioni e di cultura. Il che, oggi più che mai, sancisce lo strapotere dell’approccio pop rispetto a qualunque altro, compreso il fatto che un talento ben difficilmente riuscirà ad emergere senza il supporto di una faccia giusta e senza adeguarsi a tali imperativi.
Detto questo l’anno che sta per chiudersi lascia ben poco di realmente memorabile, e quel poco, più per meriti mediatici che estetici o qualitativi. Nel prossimo, a parte le solite strombazzate ridiscese in campo di qualche mammasantissima (U2 e Bowie i più attesi, mentre qui da noi c’è molta curiosità intorno al ritorno di Zucchero), è ben difficile attendersi stravolgimenti epocali. Del resto siamo ancora a metà di un guado, là dove la riva che s’è lasciata appare definitivamente irrecuperabile, e l’approdo innanzi, ancora troppo nebbioso per apparire garantito.
A meno che.
A meno che cosa? Personalmente m’accontenterei di una cosa: che i veri artisti fossero messi nelle condizioni di non prostituirsi per continuare a fare ciò per cui sono nati: raccontare il mondo – le sue bellezze e le sue brutture – attraverso le loro e le nostre emozioni. Questo del resto è da sempre lo specifico dell’arte, e della Musica in particolare: a prescindere da qualsivoglia latitudine, genere, o mercato.
Buon 2016 a lei e a tutti noi.