Il muro contro la città aperta
Non sarà il muro trumpiano al confine con il Messico, a cui tanti in questi giorni lo hanno – più o meno ironicamente – paragonato; ma sta comunque facendo parlare di sé, in un’epoca in cui alzare barriere sembra sia diventato quasi una moda. Stiamo parlando del muro alto tre metri che circonda il complesso residenziale Borgo San Martino, nel quartiere di Santa Bona a Treviso, finito sotto i riflettori in seguito alla denuncia di Italia Nostra in quanto non rispetterebbe il regolamento edilizio del Comune.
Ma facciamo un passo indietro, dato che – evidentemente – il muro non è stato costruito nel giro di una notte. Già la precedente amministrazione comunale, guidata dalla Lega, aveva concesso dieci anni fa alla Berno Real Estate tutte le necessarie concessioni a costruire questo quartiere – una ventina le villette costruite e vendute, ma il progetto ne conta 56 – inclusa quella che nelle carte figura come “barriera antirumore”; e pertanto non soggetta al limite di altezza massima di «metri lineari 0,70 eventualmente sormontate da ringhiera sufficientemente trasparente da consentire la visibilità» previsti dalla normativa comunale per le murature di recinzione.
Solo che il complesso in questione non si affaccia su strade rumorose; così la barriera antirumore, «che a suo tempo ha ottenuto il parere favorevole del settore ambiente» – ha precisato l’attuale assessore all’urbanistica Paolo Camolei – è diventata né più né meno che un muro a chiusura di un quartiere “esclusivo” e blindato, di stampo americano, in cui soltanto i residenti hanno accesso.
Una questione di sicurezza, si è detto; che ha evidentemente incontrato l’approvazione della clientela se, nonostante i prezzi non proprio popolari – tra i 2 mila e i 2 mila e 200 euro al metro quadrato – le villette sono andate vendute, affermano i costruttori, senza alcuna difficoltà. Del resto, si può dire che la Berno abbia venduto non tanto una casa, ma un vero e proprio “sogno di vita”: il borgo dispone infatti di piscina comune e spazi verdi, dove lasciar giocare i bambini in tutta libertà, o uscire a prendere una boccata d’aria senza curarsi di chiudere la porta di casa. Una sorta di “bolla ideale” in cui vivere felici.
E tra i residenti, che abitano lì ormai da qualche tempo, ha quindi suscitato stupore la denuncia di Italia Nostra e la successiva attenzione mediatica; perché il vero nodo della questione non è tanto il cavillo burocratico che ha consentito di far diventare una barriera antirumore un muro di cinta, quanto il modello di convivenza in città che il Borgo San Martino propone. «Treviso è una città sicura e non ha bisogno di alzare muri – ha affermato la giunta comunale –. Rispettiamo e promuoviamo il diritto alla protezione e alla privacy, ma la nostra idea di città non è quella dei quartieri fortificati». Tanto più considerando che, hanno ricordato, in città i furti in casa sono in calo per il terzo anno consecutivo; assicurando che non verranno autorizzate altre opere simili, e che verrà chiesto di coprire il muro con alberi o altra vegetazione.
Sarà; ma i residenti continuano ad essere perplessi rispetto a tanto clamore, sia perché il muro non è appunto stato costruito ieri, sia perché quartieri simili già esistono in altre cittadine del Nordest. E poi non si tratta soltanto della sicurezza, ma anche appunto di un modello di vita: come testimonia anche lo slogan con cui il Borgo viene pubblicizzato dalla ditta costruttrice, «Un’isola felice in una Treviso in espansione». Insomma, ciò che in fondo si critica è un messaggio che può essere colto come un «noi dentro – in un’isola felice appunto, con piscina e case di lusso – e gli altri fuori». Una distinzione tra “dentro” e “fuori” che risulta peraltro ferocemente ironica data la vicinanza di un altro muro di altezza simile ma di ben altra natura, quello del carcere di Santa Bona.
Anche alcuni sociologi ed urbanisti si sono espressi in proposito: il sociologo Gianfranco Bettin, in un’intervista a La Tribuna di Treviso, ha auspicato che lo Stato dia segnali forti nel perseguire i reati magari considerati “minori”, ma che più preoccupano i cittadini, così da evitare derive motivate dalla paura e alimentate dal “business della sicurezza”; mentre l’architetto Marco Ferrari dello Iuav, in un’intervista al Corriere del Veneto, ha osservato come «Quel complesso esprime l’opposto dello spirito di città. La nostra tradizione architettonica, non soltanto italiana ma europea in generale, tende a favorire l’aggregazione, la condivisione degli spazi. L’agorà. Nel caso in questione si va nella direzione opposta».