Il muro della discordia
Gli effetti del litigio tra il presidente degli Stati Uniti e il Congresso si faranno sentire mercoledì al rientro dalle vacanze natalizie. Ben 400 mila dipendenti dell’amministrazione pubblica non ritorneranno al loro posto di lavoro e 9 dipartimenti su 15 hanno dichiarato la chiusura. Il dipartimento di giustizia, quello del commercio e l’Internal revenue service terranno a casa i loro lavoratori senza fornire retribuzione, mentre i dipendenti di quelle agenzie ritenute essenziali alla vita del Paese resteranno al loro posto ma senza salario e tra loro ci sono molti addetti alla sicurezza dei trasporti.
Si spera che terminato questo blocco il Congresso vari norme che restituiscano retroattivamente gli stipendi. In piena vacanza, intanto, i parchi non saranno puliti e alcuni verranno chiusi. Non sarà garantito l’accesso ad alcuni siti storici, i musei pubblici di Washington resteranno aperti grazie ai fondi privati, forse fino al primo gennaio, ma senza fondi federali, chiuderanno i battenti il giorno dopo. Chiusa sarà la Federal communications commission, l’agenzia a tutela dei consumatori e così sarà anche la Small business administration.
Sono queste le conseguenze dello shutdown, l’arresto delle attività amministrative sancito alla mezzanotte del 22 dicembre, poichè non si è raggiunto un accordo sulla legge di bilancio federale. Il presidente Trump aveva introdotto tra le norme anche il finanziamento del muro al confine con il Messico, inserendolo tra gli strumenti di sicurezza per il Paese; invece quei 5 miliardi di dollari sono diventati oggetto di discordia non solo tra gli esponenti del partito democratico che chiedono di dimezzare la spesa e utilizzarla per droni e controlli elettronici sofisticati, ma anche nella minoranza repubblicana che non vuole assolutamente votare la misura. Trump, a più riprese, aveva annunciato e “minacciato” che avrebbe mandato l’amministrazione in shutdown senza quel finanziamento e che la sua minaccia sarebbe andata avanti ad oltranza.
L’irrigidimento presidenziale è diventato ancora più determinato dopo un pranzo con alcuni conservatori repubblicani che hanno messo in scacco l’ala più moderata. Quest’ultima incoraggiava il presidente a chiedere ai militari di costruire la barriera e usare i finanziamenti destinati alla sicurezza, anche se di misura nettamente inferiore a quelli da lui richiesti: il resto della spesa sarebbe stata attribuita al governo messicano, come più volte ribadito in campagna elettorale e in questi due anni di presidenza. In realtà Trump e i suoi consiglieri sono ben consapevoli che il no del Messico è altrettanto determinato e non esistono misure in grado di invertire la decisione del Paese confinante; per questo il presidente sta cercando di forzare la mano sulla politica interna, poichè a gennaio con l’insediamento dei nuovi deputati della Camera, non ci sarà più la garanzia di una maggioranza assoluta nei due rami legislativi e la sua amministrazione avrà vita dura. La decisione del presidente statunitense giunge alla fine di settimane estremamente travagliate nel suo gabinetto: hanno lasciato il capo dello staff, il ministro della Difesa, il consigliere sulla Siria e non pochi sono stati gli scontri con il presidente della Federal reserve che, avendo scelto di innalzare i tassi di interesse, viene accusato di provocare una recessione economica, mentre in realtà i mercati sono sempre più preoccupati dall’ondivaga decisionalità presidenziale. Il siluramento del finanziamento sul muro ha mostrato crepe non indifferenti anche all’interno del Partito repubblicano che all’unanimità aveva votato il bilancio, chiedendo però al presidente di cancellare la parte sul finanziamento del muro. Ma Trump sembra più interessato ad elettrizzare la sua base evidenziando lo scontro con l’establishment per una promessa su cui non vuole retrocedere. In realtà lo scontro si sta spostando anche all’interno del suo partito, che gli ha contestato la decisione del ritiro da Siria e Afghanistan, poichè getta ombre anche sui successi nella lotta al terrorismo; la gestione del caso Khashoggi e l’estrema simpatia per l’Arabia Saudita, ma soprattutto gli allontanamenti eccellenti di consiglieri di area repubblicana che mostrano una presidenza a rischio e fuori da ogni controllo. Dall’inizio della presidenza è il terzo shutdown per il Paese e due volte su tre la causa è stata sempre la politica migratoria.