Se muore la speranza
Un pugno nello stomaco. Il libro di Chiara Volpato, Le radici psicologiche della disuguaglianza (Laterza 2019), toglie il fiato. Leggendolo si prende coscienza di come viviamo, di quale tipo di società accettiamo, con le disuguaglianze socioeconomiche in «scandaloso aumento» in tutti i Paesi. Basta misurare due parametri: la differenza di retribuzione tra operai e dirigenti, e l’ammontare dei patrimoni accumulati dai (pochi) ricchi, sempre più ricchi. Crescono i poveri, mentre la classe media si riduce (almeno in Occidente). Nelle statistiche, l’Italia è uno dei Paesi europei con disuguaglianza più elevata. In Grecia, il taglio dei bilanci pubblici imposto dalla crisi ha peggiorato lo stato di salute della popolazione, con aumento di suicidi, mortalità infantile, malattie e stati d’ansia. Ma allora, si chiede la Volpato, perché la gente non si ribella, anzi spesso vota contro i propri interessi?
Società disuguali
Le statistiche ci dicono che le “società disuguali” sono più infelici, violente, con poca fiducia tra le persone, molto razzismo, sessismo e omofobia. Ricchi e poveri tendono a vivere in quartieri separati. Le persone sono ossessionate dal proprio status sociale, dal successo, dall’essere ammirate. C’è paura del futuro e instabilità politica, tanto consumismo e poca solidarietà.
Eppure le disuguaglianze sociali sono sorprendentemente stabili. Pochi si rendono conto di quanto siano grandi. Si pensa che siano inevitabili, che dipendano dalle capacità dell’individuo (salute e quoziente di intelligenza), quindi dal merito. Invece «è la posizione nella gerarchia sociale a determinare abilità, interessi e talenti»: in altre parole, le disuguaglianze salariali sono dovute soprattutto alla famiglia di origine e alle conoscenze. Le origini di classe, infatti, «si iscrivono nel corpo delle persone», ne influenzano la salute, l’andatura, il portamento, le capacità, la visione del mondo.
Vincenti
«Il denaro ha il potere di cambiare le persone». Gli individui delle classi medio alte, infatti, si sentono unici, importanti, indipendenti, protagonisti del proprio destino. Ricercano il potere, convinti di meritarlo. Si sforzano di mantenere la propria posizione privilegiata stando per conto proprio, in un mondo chiuso di «aristocrazia finanziaria», di élite, «lontano dagli sguardi per evitare confronti sgraditi e pericolosi». Il denaro, infatti, rende insensibili: il prossimo diventa solo un mezzo per raggiungere i propri fini. I poveri, invece, essendo dipendenti dagli altri, sono più “caldi”, più sensibili ai bisogni, al dolore, alle emozioni altrui, e tendono a dare priorità agli interessi della comunità.
La Volpato non giudica, non sostiene che i ricchi siano cattivi e i poveri buoni, o viceversa; si limita a sottolineare i meccanismi psicologici (inconsapevoli?) tipici di entrambi. Per attenuare il senso di colpa, i vincenti giustificano la disparità con pregiudizi come: i ricchi sono competenti e meritano il successo, mentre i poveri sono pigri, la competizione è positiva, la povertà inevitabile. Questo è falso: il successo economico è quasi sempre legato alle conoscenze, alle “amicizie importanti”, non ai meriti individuali. Grazie ai pregiudizi diffusi, però, le classi forti esercitano un’egemonia culturale, per cui il loro pensiero diventa dominante. Alla fine, le persone di alto status acquisiscono spesso «comportamenti arroganti e narcisisti, al limite della patologia».
Perdenti
La disuguaglianza uccide. A Londra, l’aspettativa di vita diminuisce di 6 mesi a ogni fermata della metro in direzione dei quartieri poveri. I perdenti e i sottomessi, infatti, accumulano ansia e depressione, soffrono per il dolore della sconfitta quotidiana, sopravvivono tra «salari stagnanti e orizzonti limitati», nel posto sbagliato della città e del mondo. Spaventati da un futuro imprevedibile, hanno paura di trasformarsi in invisibili, di non controllare la propria vita. La loro attenzione si concentra solo su come sopravvivere, per cui sono «meno intuitivi, meno lungimiranti, meno controllati», incapaci di prendere decisioni e resistere alle tentazioni. È come «una tassa sulla mente»: la povertà causa l’incapacità, non il contrario.
Pian piano i perdenti interiorizzano un «risentimento, misto a vergogna e rabbia, provocato dalla sensazione di essere oggetto di ingiustizia». Paura, debolezza, impotenza e auto-svalutazione si trasformano in ostilità. Una volta, soprattutto i maschi trovavano la loro identità sociale nel lavoro: oggi che questo è diventato precario, tornano forme più “fondamentali” di identità, come nazionalità, etnia, religione, genere, ostilità per gli immigrati, le donne, i diversi. Di solito la destra è più attenta a questi temi identitari, “nostalgici” del passato. Spiega la Volpato che «un cronico stato di insicurezza è l’essenza psicologica della povertà», per cui le classi sociali svantaggiate sviluppano un particolare desiderio di «sicurezza e stabilità», sfruttato dai partiti conservatori.
Destini
Come spiega Carlo Bastanin nel suo Viaggio al termine dell’Occidente (Luiss 2019), oggi in tutti i Paesi occidentali c’è una diffusa “crisi di senso”: abbiamo paura di non veder riconosciuto il nostro significato come persone, di «scivolare ai margini» della società. Allora il vuoto di senso viene riempito dal rancore e l’autostima viene ricostruita denigrando chi sta peggio di noi, gli immigrati in primis. E siccome deve esistere «un nemico responsabile di ogni nostro male», «ci aggrappiamo a tentazioni autoritarie». Temiamo la “divergenza”, la “separazione dei destini”, tra i singoli, le comunità, i popoli.
«La globalizzazione, combinata con la tecnologia, con i social media e con un ciclo incessante di informazioni» sconvolge la vita degli individui, provocando una carica di frustrazione. Ognuno cerca di salvare se stesso, la propria identità, la propria famiglia, i propri valori minacciati. I delusi (specialmente maschi bianchi poco istruiti e depressi) non chiedono maggiore giustizia sociale, non vogliono una «risposta razionale», non inseguono una speranza di miglioramento. Sono «fieri di avere una visione cinica del mondo». Rivogliono «i privilegi e le disuguaglianze» del passato! Sono elettori «in cerca di vendetta», che solo così ritrovano significato.
Donne e giovani
Ma «se violenza e politica ora si comprendono e si parlano», se la società frammentata non ha più «spazio per obiettivi comuni», riuscirà la democrazia a resistere al vento autoritario, al nazionalismo, alla violenza? Per fortuna, secondo Bastanin, in questa crisi epocale le donne, spesso impegnate nella cura di anziani e bambini, riescono più degli uomini a rimanere in equilibrio. A mantenere il senso della vita e della società. Per fortuna, i giovani trovano nella tutela dell’ambiente un ideale globale, che «guarda al mondo come a un unico universo da condividere e preservare». Per fortuna c’è papa Francesco, che invita tutti a non aver paura del cambiamento, a non perdere la speranza che un mondo migliore è possibile, a impegnarsi per una “società senza scarti”. Di nessun tipo.
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In Usa, i ceti più istruiti e le minoranze votano a sinistra, mentre i ricchi e i ceti popolari a destra (Chiara Volpato)