Munch – La forza del dolore
Per alcune persone, la vita sembra non avere mai un barlume di gioia.Artisti per cui il dolore è la costante che ne intesse il pensiero, l’emozione, l’ispirazione. La loro è un’arte brutta, e forse qualcuno si chiede se sia davvero arte, o se non si tratti di una sua degenerazione, dato che non esprime un’umanità bella ed eroicamente trasfigurata. Il nazismo tacciò appunto di arte degenerata l’opera di Edvard, espressione di esseri fragili, raggomitolati in sé stessi, impotenti. Oggi, opere come Il grido (1895) sono invece manifesto profetico del secolo sanguinario che sarebbe venuto – il ventesimo – ma ancor più di qualsiasi dolore senza spiegazione che da sempre percorre la storia umana. In una vicenda personale dominata dall’orfanezza, dal senso della morte e da una solitudine fiaccante, Munch inscrive la sua parola urlata. Come dà voce lui al mare di sofferenza innocente che si leva al cielo è qualcosa di sconvolgente. Non usa i colori limpidi come i coetanei Impressionisti, ma tinte innaturali che sono altrettanti singhiozzi dell’anima. Le sue ombre non hanno calore, ma stridono; e gli interni dove si consumano drammi (La bambina malata, Morte nella camera della malata, gli Autoritratti) hanno arie livide: non ci sono lacrime, sono rimaste dentro, congelate nel pensiero. C’è una tela, Notte a Saint-Cloud (1890) in cui Edvard sta solo con i suoi fantasmi, un interno dove a stento la luce rompe il buio; ce n’è un’altra, Malinconia, 1891: il pittore – o chi per lui – siede pensieroso in riva ai fiordi, ci sono tele del 1894 dai titoli impressionanti: Disperazione, Angoscia. Il cielo si stria di vampate rossastre, le sagome umane sono spettri, la linea si arrotola in curve piangenti. L’uomo chiede urlando la sua anima, un solo grido d’angoscia sale dal nostro tempo…. Così un critico, Hermann Bahr, nel 1920 a definire il secolo da poco iniziato. Munch vede sanguinare l’anima dovunque. Anche nell’amore. La donna può esser Maria o essere vampiro, la innocenza degli adolescenti può esser protetta o violentata, il bacio fra due innamorati è un sentimento senza gioia chiuso dentro una campana di colore, ove i volti non esistono. Ognuno sta solo sul cuore della terra, avrebbe detto un poeta italiano. Nella Danza della vita (1900 circa), nulla c’è di sereno, due donne sfiorite – e sfinite – guardano le coppie chiuse nel proprio ritmo, tristemente. La cupezza delle tinte, la loro densità sembrerebbe escludere ogni possibile moto sereno. Com’è dura quest’arte, impenetrabile un silenzio simile; quanta incomunicabilità fra le creature e quanto difficile all’uomo uscire dalla propria solitudine. Nulla è rassicurante infatti in Munch. E forse qualcuno si chiederà se vale la pena sfilare davanti alle sue opere. Forse che il nostro tempo non ne ha abbastanza di dolore per immergerci ancora in qualcuno che continua a gridarlo? Invece no, non si può fuggire da questo artista. Grande come un van Gogh, erede di una sensibilità visionaria come un Grünewald o un Bosch, egli riassume e continua lo sguardo filoso- fico dell’uomo nordeuropeo sul vivere umano. Crocifisso nella sua vita, Munch si avvinghia a questa stessa crocifissione dell’anima di cui esplora, attraverso sé stesso – i miei quadri sono i miei diari affermerà – le forme più profonde e disarticolate del dolore. Con la sensibilità profetica degli artisti, scopre nel suo tormento la voce di una sofferenza assai più grande. È l’uomo dei dolori – di oggi, di sempre – il soggetto reale dei lavori di Munch: un infinito schiacciato sotto il peso di una colpa che non ha commesso (…perché sono stato gettato nel mondo senza poter scegliere?, dirà) ma che assorbe e concentra in sé stesso. Forse sta in questo la ragione del fascino delle sue grida, dei colori acidi, degli spettri vaganti nelle arie malate delle tele. Così che Munch, consapevole o meno, diventa interprete del tormento esistenziale dell’umanità stessa che ha perso la gioia perché ha perduto l’anima. Eppure, incredibile, il risultato non è disperante come i soggetti e la vicenda dell’artista farebbero supporre. Pervade chi guarda, alla fine, un sentimento di com-passione per il dolore umano grazie proprio ad uno che pare voler dire dalle sue tele, ogni dolore è mio. E sta nella sofferta attesa di una risposta