Mumbai, metropoli che sa sopravvivere

Ero lontano da Mumbai, la città dove vivo, quando, il 25 agosto scorso, seppi dello scoppio di due bombe che avevano ucciso una cinquantina di persone. In un anno era la settima volta che la città conosceva il rumore della detonazione di ordigni: sempre in quartieri affollati o su treni o bus della metropoli, sui quali si deve lottare per salire a causa della concentrazione umana. Al telefono, gli amici mi hanno rassicurato: “Conosci Mumbai. Oggi è tutto normale e tutti sono andati al lavoro”. Parole emblematiche. La capitale del Maharashtra, da sempre conosciuta come Bombay e una decina di anni fa ribattezzata Mumbai, dal nome originale, sembra (!), è una città di 16 milioni di persone. I sette scoppi di bombe degli ultimi mesi, senza voler far paragoni sul numero delle vittime, fanno venire in mente la New York delle Torri gemelle. Mumbai non è nuova a queste esperienze. Dieci anni fa 13 bombe erano esplose nel giro di poco meno di un’ora, con centinaia di morti. Mumbai non è la “Grande mela”. Soprattutto non ha rappresentato e non rappresenta agli occhi del mondo quanto New York ha significato per generazioni e generazioni di gente di ogni continente. Nell’immaginario dell’uomo d’oggi la metropoli indiana è sinonimo di povertà, barac- che, folle disperate, sporcizia. Forse è difficile intuire che per il miliardo di indiani che non vi vivono, Mumbai è quanto New York ha sempre rappresentato per il resto del mondo. Per un uomo dei villaggi arrivare nella metropoli significa un futuro, soldi che in qualche modo arriveranno, la possibilità, prima o poi, di portarci la famiglia e poi di ritornare al villaggio con qualche spicciolo e tutta un’altra immagine. Poco importa se per tutto questo si deve vivere in una baracca fatiscente, o non si hanno nemmeno latrine pubbliche, o si deve viaggiare in treni che possono portare duemila persone e ne trasportano fino a 6 o 7 mila nelle ore di punta. Vivere a Mumbai è una lotta, che l’uomo dell’India è pronto a combattere proprio perché la metropoli è il sogno dei sogni. È per questo che negli ultimi trent’anni si è assistito ad una crescita vertiginosa della popolazione. Studi demografici accurati hanno stabilito che fino a mille o più famiglie al giorno vanno da anni ad ingrossare le bidonville e gli slum della città e che, con tutta probabilità, entro il 2012 Mumbai sarà la città più popolosa al mondo. Forse non tutti sanno che è qui, a Dharavi, una zona un tempo maledetta dove due milioni di persone occupano un fazzoletto di baracche e di vicoli intricatissimi con liquami di tutti i tipi a cielo aperto, che si confezionano le copie degli articoli in pelle (autentici) di Versace e Vuitton, che poi si comprano nelle boutique di Roma e Milano a prezzi d’oro. Quando qualche anno fa una zona di baracche vicino all’aeroporto prese fuoco, per via della mafia locale, si scoprì che era il luogo dove venivano confezionati gli Swatch svizzeri (falsi, questa volta): un giro d’affari da capogiro. Il costo della terra a Mumbai è stato per anni il più alto del mondo: 10 mila dollari a metro quadro nella zona di Nariman Point. E questo quando uno stipendio medio, per la classe media, era sulle 10 mila rupie, pari allora a 250 euro. Per questo motivo metà della popolazione vive in case, e l’altra metà in baracche o sulle strade. E non è che un marciapiede o un pezzettino di terra in uno slum siano gratis. Si può arrivare a pagare fino a 250 Euro all’anno per trasferire le proprie carabattole in 6-7 metri quadri, coperti da una lamiera o da un telone di plastica tenuto da pneumatici in disuso. Ma è sempre a Mumbai che aerolinee internazionali come British Airways o Swiss hanno trasferito i loro centri amministrativi: la globalizzazione permette di lavorare da qui in tempo reale, a costi di lavoro molto bassi e con personale high tech molto professionale. Ci sono aspetti che lasciano sconcertati e sono degni del Guiness dei record: i dabbawalla, per esempio. Chiunque lavora in un ufficio può permettersi di mangiare un pasto caldo, cucinato dalla moglie o dalla madre. Non ce lo si porta con sé al mattino, sui treni con ci sarebbe posto. Si lascia davanti a casa in un contenitore apposito tracciando sul coperchio segni e numeri che significano una certa zona della città. Entro le 10 c’è chi passa a ritirarlo e alla stazione ferroviaria della zona viene smistato. Alle 12.30 l’interessato se lo trova sul tavolo. “Niente da meravigliarsi”, potrebbe commentare qualcuno, se non fossero più di un milione i pasti che vengono ritirati e consegnati ogni giorno, con una percentuale di errore che si avvicina all’1 per 10 mila. Mumbai è anche una città che vive 24 ore su 24. Alcune zone della metropoli, come la stazione di Dadar, nodo ferroviario vitale dei treni locali e di quelli a lunga percorrenza, non conoscono giorno o notte: la folla è sempre costante. Qui ci si sente sempre sicuri: ci sono casi di delinquenza comune, ma la folla, sempre presente, è un deterrente naturale alla criminalità. Notte o giorno, se succede qualcosa, un grido è sufficiente a richiamare l’attenzione della gente che si sostituisce alla polizia. La Borsa, pur non essendo quella di Wall Street o Tokyo, l’indice costante dell’economia indiana, attenta da anni a non darsi alle multinazionali o alle leggi selvagge della globalizzazione, eppure aperta, con i dovuti controlli degli organi governativi, all’economia di mercato, dopo decenni di autarchia socialista, voluta da Nehru. Come dicono in molti, chi vuole colpire l’India deve colpire Mumbai: il Kashmir è un contenzioso da sempre, e probabilmente continuerà ad esserlo. Altri punti di tensione nel paese possono apparire per poi sparire dopo qualche tempo. Ma tutti sanno che se si vuole creare una strategia della tensione, il cuore che si deve centrare è la capitale del Maharashtra. L’India rappresenta oggi un punto chiave nell’intricatissima strategia delle tensioni mondiali. Vari sono gli in- gredienti che la rendono tale: un incremento demografico inarrestabile con una popolazione seconda solo alla Cina; un’economia in costante crescita e non soggetta alle crisi improvvise che hanno caratterizzato le tigri dell’Asia; capitale mondiale del software, ma anche secondo paese mussulmano al mondo, dopo l’Indonesia; una tensione costante con il Pakistan che, oltre ad essere nemico endemico, è centro di esportazione e di rifugio per guerriglieri islamici di diverse fazioni; ma anche tensioni interne legate ad un crescente fondamentalismo indù. Colpire in India significa quindi molte cose e, con una popolazione rigurgitante, è facile colpire e dileguarsi. A questi elementi si uniscono poi giochi politici interni,complessi e sottili, che ancora trovano a Mumbai un teatro ideale per dare sfogo a tensioni. In questa situazione si potrebbe pensare che sia cresciuta una sfiducia generalizzata, un timore per il futuro, una metropoli allo sfascio, gente rintanata in casa: tutti sintomi che la tensione avrebbe avuto la meglio. Ebbene Mumbai per ora non si è lasciata andare: la metropoli sa sopravvivere. Ricordo un altro fatto. Una decina di anni fa, immediatamente dopo i fatti che portarono alla distruzione della moschea di Ayodhya, nello stato dell’Uttar Pradesh, anche nella capitale del Maharashtra scoppiarono scontri cruenti fra indù e mussulmani. Ci furono molte vittime e scattò il coprifuoco che rese la metropoli una città fantasma. Seguirono due giorni di sciopero generale proclamati dal partito locale dello Shiv Sena, l’esercito di Shiva, una sorta di Lega locale, che nell’ultimo decennio ha controllato la vita dello stato. Ma questa situazione non andò per le lunghe: dopo alcuni giorni di coprifuoco e due giorni ancora di vita casalinga, al terzo giorno Mumbai tornò al lavoro, spontaneamente, come se nulla fosse. Ricominciò da dove si era fermata una settimana prima, ricostruì quanto era stato distrutto, recuperò il lavoro arretrato nei vari uffici e dopo qualche giorno tutto era tornato normale. Lo stesso accade ogni anno quando, per via dei monsoni e dei giochi delle maree, varie zone si allagano e la vita si ferma, per ricominciare il giorno dopo. Proliferano esempi eroici: persone che dormono negli uffici per via dell’impossibilità di tornare a casa o impiegati che invitano le colleghe a passare la notte nella propria famiglia in modo che non corrano pericoli di qualsiasi tipo; gente che cammina per chilometri nell’acqua fino al ginocchio. Niente sembra distogliere l’uomo o la donna di Mumbai dalla sua vita quotidiana, una vera battaglia che comincia la mattina con la lotta per un posto sui treni e finisce la sera quando, dopo ore di lavoro, due ore di viaggio in treno schiacciati fino al soffocamento, le spese sulla via di casa, l’acqua da pompare nell’ora che viene erogata dalla municipalità, ci si addormenta nelle baracche o nei mini appartamenti di 70-80 metri quadri, nell’aria impastata di umidità e inquinamento. Nonostante tutto questo, e molto altro ancora, non sono molti a voler lasciare una metropoli così. Sembra incredibile. Eppure l’uomo di Mumbai ha le sue radici in questa città e ne va fiero. Qui si è mumbaiwalle (cittadini di Mumbai) prima di essere musulmani o cristiani o indù. E questo dà un incredibile senso di solidarietà: è come sentirsi parte della stessa famiglia. Quando due persone della metropoli si trovano lontano dall’India o, semplicemente, in un’altra parte del paese, trovano sempre qualche punto di contatto: un legame di parentela, un amico comune, la vita nella stessa zona o l’aver frequentato da bambini la stessa scuola. Molti dicono che questa metropoli non è l’India e forse non c’è commento più superficiale. Mumbai, non potrebbe non essere che in India, un paese che riesce a conciliare opposti, apparentemente inconciliabili. È un microcosmo che presenta quanto l’India può fare con 16 milioni di persone (più di Austria e Svizzera messe insieme) su un fazzoletto di terra lungo poco meno di 70 chilometri e a volte largo poco più 3 o 4. È un messaggio di speranza e capacità di non fermarsi mai.

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