La leggerezza di Sanremo e la vita di ogni giorno
Inizia il 6 febbraio il Festival della canzone italiana. Una sorta di tregua collettiva di una storia che parla delnostro Paese
Diceva lo scrittore napoletano Ermanno Rea che gli italiani di oggi hanno smesso di cantare in pubblico, come avveniva, invece, fino agli anni più recenti tra le classi popolari. Sta di fatto che lo stereotipo dell’italiano con pizza e mandolino è scomparso ma il festival della canzone italiana di Sanremo resta un evento nazionalpopolare, anche tra i giovanissimi che magari non lo vedono in Tv ma lo seguono sui social in modi creativi e ironici.
Per la Rai si conferma, comunque, una manna per l’indice di ascolto fino all’ora tarda e tutto il sistema dell’informazione, o gran parte, concorre a farne una sorta di tregua nell’agenda delle notizie tristi, tanto che anche nell’edizione del 1967 lo spettacolo andò avanti anche dopo il discusso suicido del cantautore Luigi Tenco. I sospetti sulle trame dell’industria discografica sono rimasti ancora in vita, ma è proprio “la città dei fiori”, poco più di 50 mila abitanti di una temperata località balneare, ad attirare storie e ricostruzioni più o meno fondate.
Centro di interesse internazionale anche per la predilezione della nobiltà e borghesia russa che veniva in riviera a curare la tubercolosi. Ancora da Sanremo parte, o almeno partiva fino a qualche anno addietro, un treno diretto a Mosca. È qui che nella mitica piazza Rossa del post regime sovietico si sono adunate folle oceaniche per osannare i concerti di Al Bano, Toto Cotugno o i Ricchi e Poveri.
La prima edizione del Festival canoro è datata 1951 ma risale al 1932 la prima esibizione di canti napoletani nelle sale del Casinò che ospiterà l’evento artistico fino al 1976. Il palazzo liberty dell’azzardo dei ceti abbienti fu eretto agli inizi del 900 vicino ad una chiesa francescana e proprio sul terreno confiscato ai frati dalla leggi unitarie.
La canzone, quindi, associata ad uno spazio esclusivo, magico, separato dalla realtà. Anche quando la vita ordinaria della gente ha cercato di rompere questo cerchio magico del palco, trasferito poi al teatro Ariston, non ha avuto la forza di ribaltarne il meccanismo consolidato. Qualcuno si ricorderà lo spazio offerto, anni addietro, ad alcuni operai della Fiat di Termini Imerese destinati ad essere licenziati, con l’allora ministro Scaloja che prometteva interventi della politica e un Bersani ( per rispetto della par condicio) che non riusciva a dissimulare l’amarezza per un destino già segnato. Riusciranno quest’anno a fare breccia i trattori degli agricoltori che occupano mezza Europa?
La “gente” , si dice, ha bisogno di leggerezza, di sognare, di lenire la fatica quotidiana parlando di altro, sapendo bene, però, che questa tregua dura poco, come è avvenuto nell’edizione del 2020 con il Covid alle porte e la dichiarazione di pandemia che fu proclamata poco dopo la chiusura dell’edizione di Fiorello.
Con la fine della clausura imposta per sicurezza, assistiamo ad una voglia di eventi collettivi, concerti che costano un occhio della testa ma riempiono gli stadi. E i volti giovani e anziani di cantanti e tutto il mondo della società dello spettacolo che calcano le strade di Sanremo nel paesaggio delle luminarie, come una ritualità ancestrale che si ripete.
Senza voler essere “pesanti”, indagando sulla condizione umana con uno sguardo che resta vigile sulla realtà, si può trovare anche lo spazio per vedere “The Idol”, un film del 2015 che racconta di un concorso canoro vinto da un ragazzo palestinese che arriva da Gaza. La stessa voglia di cantare con l’emozione che raggiunge le corde più profonde dell’animo, come sapeva bene quel popolo raccontato da Ermanno Rea e che, forse, non è del tutto scomparso.
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