Confini

Trieste e la Rotta balcanica che mette in crisi l’Europa

Resta viva l’attenzione sulle gravi violazioni dei diritti umani e violenze che avvengono sul confine orientale dell’Unione Europea. Video intervista a Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi a proposito dell’impegno a favore delle persone migranti. Non solo un atto umanitario ma “politico”.

La Rotta balcanica è un tabù, non si parla di ciò che avviene oltre il nostro confine orientale perché rischiamo di risvegliare i demoni nascosti della nostra storia anche recente. Ma le foto che da fine 2020 ritraggono quegli esseri umani abbandonati al gelo, in Bosnia, continuano a rendere per lo meno inquieta una parte della società civile italiana. Una generosa risposta solidale ha fatto partire, pur in mezzo alla pandemia, camion di coperte, abiti, cibo per raggiungere quel cantone bosniaco di Una Sana dove resta confinata questa umanità che cerca ostinatamente di entrare nel territorio dell’Unione europea ma ne viene respinta con violenza.

Foto Francesco Cibati

Nell’ultima diretta promossa da Città Nuova intitolata “Che fare?” il padre gesuita Stanko Perica, collegato dalla Croazia, non ha avuto alcuna remora a testimoniare le percosse sistematiche inflitte dalla polizia croata ai rifugiati che cercando di passare il confine. D’altra parte, nel racconto pubblico che si è voluto veicolare con forza negli ultimi anni, quelle persone non hanno volto, una storia da raccontare, una famiglia che gli vuole bene, ma appartengono ad una massa indistinta di invasori, pronti alla sostituzione etnica di una civiltà occidentale smarrita e impaurita.

Dovremmo, perciò, evitare almeno di essere ipocriti nel condannare le forze di sicurezza di un altro Paese che esegue, di fatto, una linea di condotta condivisa dall’Ue che non vuole questi migranti, spende per confinare nei campi precari bosniaci quelli che riescono ad arrivare nonostante gli accordi miliardari siglati con la Turchia. Si stima che il Paese della Nato, guidato da Erdogan, ne trattenga almeno 4 milioni, in gran parte fuggiti dalla Siria devastata dalla guerra. Un equilibrio comunque instabile dato che il presidente turco usa la minaccia dell’invasione di milioni di migranti per fini di egemonia geopolitica.

Quelle migliaia di profughi che raggiungono il confine dell’Ue sono degli ostaggi di questo tipo di politica che non vuole affrontare il nodo epocale delle migrazioni. Non vuole dare il segnale di via libera di entrata anche a casi disperati ma neanche intende rivedere un piano razionale di accoglienza e ricollocazione equa tra i 27 Paesi che la compongono. Sono in minoranza i parlamentari che spingono per trovare una soluzione secondo giustizia e umanità, mentre la situazione nella Federazione della Bosnia Erzegovina diventa sempre più insostenibile. È un Paese che paga ancora le conseguenze di una guerra sostenuta dall’Occidente, cioè da noi, come tutti i conflitti che hanno colpito i Paesi da cui proviene quella composita umanità che chiamiamo migranti e rifugiati.

Foto Francesco Cibati

Assume, perciò, un significato emblematico ciò che accade a Trieste dove, nella piazza davanti alla stazione, Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi prestano aiuto a coloro che in qualche modo hanno superato il confine e sono arrivati in Italia. Stremati, con i piedi piagati, come avviene ai soldati in trincea, ma con la speranza di una nuova vita.

I due coniugi sono arrivati in città solo dal 2018, ma già da prima, a Pordenone, hanno aiutato i migranti della prima rotta balcanica (quella che passa da Austria, Serbia, Romania e Ungheria). A Trieste vanno incontro a coloro che fanno il tragitto attraverso Grecia, Albania, Montenegro e Bosnia. Diverse strade ma la stessa umanità che qui assume un nome, una storia, un volto e, anche, un corpo che porta il segno doloroso delle percosse e della paura. Se non delle torture.

Intorno a Lorena e Gian Andrea è nata, nel 2019, l’associazione Linea d’Ombra per “raccogliere fondi per sostenere le popolazioni migranti lungo la Rotta balcanica e ovunque potrà esserci bisogno”, organizzando anche viaggi in Bosnia, distante poche ore da Trieste.

Insomma una di quelle tante piccole realtà, nate dal basso, che di solito non fanno notizia ma sorreggono alla radice l’appartenenza alla comune umanità. Un’involontaria forma di pubblicità è arrivata da una recente notizia di cronaca che coinvolge Gian Andrea Franchi. Così la racconta lui stesso: «il 23 febbraio alle cinque del mattino un gruppo di uomini delle Digos irrompono a casa nostra, ci sequestrano il mio computer col cellulare, mi portano in Questura dove mi prendono impronte e foto segnaletica, mi tengono lì tre ore poi mi rimandano con la denuncia di far parte di una banda di passeur anche con qualche collegamento di tipo terroristico». È scattata così immediatamente una solidarietà concreta, con dichiarazioni di autodenuncia e l’avvio di una raccolta di fondi per le spese legali. Perché realisticamente la giustizia penale ha le sue procedure e la cosa non sarà breve. Sul caso in questione Città Nuova offre, nel numero in uscita ad aprile, una lettura attenta da parte di Adriana Cosseddu, docente di diritto penale all’Università di Sassari e referente della rete internazionale di giuristi “Comunione e diritto”.

Quello che colpisce dell’ultraottantenne professor Franchi, già docente di liceo, è la sua lucidità di analisi. Invita, infatti, a parlare correttamente, come fa la ricercatrice bosniaca Nidzara Ahmetasevic, di “Rotta europea” perché non si può giocare con le parole e nascondere, dietro il riferimento alla dimenticata regione geografica dei Balcani, la consapevolezza che la violenza esercitata lungo quel tragitto e alle nostre frontiere mette in crisi la ragion d’essere dell’Unione Europea. Il riferimento ad identità che si voleva fondare sul superamento delle guerre e della logica colonialista del suo passato.

Quando perciò, Lorena Fornasir, che di professione è psicoterapeuta, si reca davanti alla stazione per curare i piedi di chi è ferito, dal lungo viaggio e dall’ostilità verso gli stranieri, compie un gesto che non è solo umanitario ma “politico”: «Curare i piedi di qualcuno significa dirgli: tu vali, tu hai un valore, tu non esisti per lo Stato e per i suoi confini, sei disumanizzato, ridotto ad essere considerato una non persona ma per me sei un grande valore, come la mamma che, come primo gesto, tocca i piedi e le mani del bambino appena nato, cioè lo riconosce e in qualche modo lo mette al mondo. Divento testimone della violenza inflitta su quel corpo e gli riconosco quel diritto di esistere che finora nessuno Stato ha voluto fare ma lo ha invece ricacciato indietro».

Parole intense e inusitate che possono anche disturbare perché mettono in crisi un intero sistema. Con quella determinazione che appartiene ad una generazione che ha creduto e crede tuttora possibile agire per cambiare il mondo in meglio, rifiutandosi di restare alla finestra.

Nell’intervista video concessa a Città Nuova raccontano qualcosa della loro storia. La ragione che muove il loro agire e alcuni degli incontri che hanno fatto. Da meditare.

 

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