Rivedi la diretta “Rotta Balcanica e diritti umani, che fare?”
Che fare? Lesbo così come i campi in Bosnia sono l’icona della violenza strutturale dei nostri sistemi economici e sociali, verso gli inermi ed innocenti immolati nella Storia. Una tappa ulteriore della cosapevolezza di un' azione comune nel segno della fraernità
«Il cancelliere austriaco Sebastian Kurz ha lodato l’azione della polizia croata che respinge con violenza i migranti che voglio attraversare il confine dal cantone bosniaco di Una Sana». Gli agenti picchiano duro sul corpo, stando attenti a non colpire il volto, ha precisato padre Stanko Perica, responsabile per la regione europea del servizio dei gesuiti per i rifugiati. Non ha nascosto la realtà dei fatti pur essendo in collegamento video da Zagabria, in una stanza con gli evidenti segni del terremoto che ha colpito quella terra.
La Rotta balcanica, o “Rotta della vergogna” come l’ha definita il quotidiano Avvenire, sta tutto in questa violazione palese di ogni diritto e pietà umana, tanto che il giovane politico di Vienna riconosce il valore intimidatorio di quei colpi come un messaggio rivolto a chiunque voglia mettersi in viaggio fuggendo da guerre e carestie per chiedere accoglienza. La stessa lode è arrivata dalla cancelliera tedesca Merkel quando si è recata in visita in Croazia, ripete padre Perica. Esiste un mandato esplicito a fermare i flussi di persone che arrivano nonostante gli accordi miliardari con la Turchia per trattenere nei loro campi i profughi siriani, afghani e pakistani.
Sa bene di dire cose terribili, Gianfranco Schiavone, di Asgi, l’associazione dei giuristi che studiano le migrazioni, ma deve mettere in evidenza l’uso sistematico della violenza come strategia politica nei confronti di questa umanità in fuga e che vorrebbe chiedere asilo ma non può farlo. Accade anche in Italia, dove su quel difficile e travagliato confine orientale i migranti vengono accompagnati direttamente per tornare in Slovenia e da qui respinti in Bosnia, alloggiati in tende non riscaldate quando scende la temperatura a meno 15 gradi sotto zero. Le famiglie, dice Stanko Perica, sono dislocate in alberghi dismessi in precarie condizioni, senza riscaldamenti. Molti altri vagano nei boschi. È considerato illecito poterli aiutare, precisa il gesuita anche se il loro servizio di accoglienza continua lo stesso.
«Come stai amico mio. La mia fede in voi è molto forte. Siete la mia sola speranza, e può essere che io chiedo troppo. Io credo che mi manderanno indietro nel mio Paese. Ed il mio destino è la morte». Legge questo messaggio proveniente dall’isola di Lesbo in Grecia, Laila Simoncelli, avvocata esperta in diritti umani, dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII presente da anni in questo altro luogo di desolazione dove i migranti con i loro bambini affondano nel fango, nei campi costruiti anche sopra delle discariche.
«Lesbo, così come i campi in Bosnia, sono l’icona della violenza strutturale dei nostri sistemi economici e sociali, verso gli inermi ed innocenti immolati nella Storia. Questi fratelli e sorelle nostri amici ed amiche sono persone in fuga da conflitti, teatro degli scontri di interessi economici e strategici delle grandi potenze mondiali, scontri di potere che hanno bagnato la terra di sangue di civili, persone comuni, uomini donne e tanti bambini e in fuga anche dalle conseguenti, povertà, insicurezza alimentare, persecuzioni, terrorismo, disastri naturali e ambientali».
Un racconto radicalmente diverso da chi fomenta la paura dell’invasione, che invoca i blocchi navali militari. «A Lesbo come in Bosnia ci troviamo di fronte a forme consolidate di strutture ingiuste, frutto amaro del meccanismo perverso della deterrenza, che finisce con l’attribuire ai migranti la responsabilità di un problema tutt’altro che loro! Se solo disarmassimo le nostre economie!».
Sono solo alcuni accenni degli interventi dell’incontro promosso da Città Nuova con il titolo “Che fare?”. Si intende come agire politicamente oltre la solidarietà spontanea di una parte della società civile come riportata dall’esperienza in corso a Parma e Pisa. È la domanda a cui non si sottrae il Mppu improntato a quella fraternità che papa Francesco ripete in ogni occasione opportuna e inopportuna, nei luoghi degli eccidi e delle violenze, come nel viaggio in Iraq.
La tappa del 9 marzo fa parte di un percorso emerso pubblicamente con il primo collegamento ad inizio 2021, il 5 gennaio, che deve continuare.
Vedere è,infatti, il primo passo. Cercare di capire è secondo. Agire è la vera sfida. Capire può essere solo fonte di amarezza e di impotenza, un invito a tornare a non guardare per illudersi di non immischiarsi in drammi che ricordano gli anni 20 del secolo scorso. Ma non c’è alternativa ad essere fratelli e sorelle se non la rovina comune.
Rivedendo la diretta della sera del 9 marzo è legittimo attendersi i frutti di un cammino comune, propositivo,che non può fermarsi.